Nel 1973 Grace Slick ha 34 anni, contempla l’Oceano Pacifico dalle finestre di casa (un casinò sulla spiaggia riconvertito in abitazione privata), culla la figlia China di 2 anni e insieme al compagno di vita e di musica Paul Kantner si chiede cosa fare di lì in poi. Bolinas, dove hanno scelto di andare a vivere qualche anno prima, è 17 miglia e ½ a Nord Ovest di San Francisco nel bel mezzo dell’idilliaca Marin County, lontana dal caos del vecchio quartiere hippie di Haight-Ashbury e da Fulton Street, la vecchia villa vittoriana ai margini del Golden Gate Park che i Jefferson Airplane avevano acquistato nel 1968 facendone la loro residenza comune. E anche gli Airplane, sia pure senza una dichiarazione ufficiale di estinzione, sono ormai un capitolo chiuso, ora che il chitarrista Jorma Kaukonen e il bassista Jack Casady sembrano molto più interessati al loro progetto rock blues, gli Hot Tuna, e al loro sport preferito, il pattinaggio sul ghiaccio.

Grace, in quel momento, è una mamma che ha preso temporaneamente le distanze dal circo del rock and roll ma che non rinuncia alle sue abitudini pericolose. La coca al posto dell’Lsd, il consumo di alcol ben oltre i livelli di guardia a gettare benzina sul fuoco di un carattere già di per sé incendiario: il risultato, una serie d’intemperanze che fanno la felicità dei giornali di gossip creandole non pochi problemi con la polizia e con le autorità. Nell’immaginario collettivo, però, è ancora la dea della Summer of Love, la voce più forte e limpida della Woodstock Generation, la sirena di un’isola dove regnano gioia, amore e musica.

Il tempo a disposizione non le manca, i soldi neanche, l’ambizione men che meno. Ai Wally Heider Studios, seconda casa di tutti i migliori musicisti di Frisco e dintorni, decide di dare forma al suo 1° progetto solista, ispirandosi al vecchio amore per il cinema, per le star hollywoodiane e per le colonne sonore: 1 album incentrato sul tema conduttore di un film. Un film che esiste solo nella sua mente, ma pazienza. E pazienza se per tradurre in musica i suoni che ha in testa bisogna a un certo punto trasferirsi armi e bagagli a Londra, per registrare agli studi Olympic nientemeno che la London Symphony Orchestra diretta e arrangiata dal coproduttore Steven Schuster, amico di Kantner dai tempi pre Airplane in cui i 2 giravano per i folk club californiani. Paga la Grunt Records, la vanity label finanziata e distribuita dalla RCA, non ci sono limiti al budget e all’immaginazione.

Un capriccio? Un esempio paradigmatico di rock decadente e autoreferenziale? Forse, eppure in quel disco si respira ancora il profumo di un’epoca e di un luogo speciali: spirito intrepido e libertario, coraggio, poesia. Musica. In copertina un autoritratto disegnato con tratto volutamente infantile da Grace, che sfoggia la sua nuova capigliatura riccia. Sul retro 1 dipinto coloratissimo e naïf (sempre opera sua), che ritrae band e orchestra in azione, Schuster a dirigere con la bacchetta, fonici e produttori (lei, Kantner, David Freiberg e Keith Grant) ad assistere o a manovrare il mixer. Dentro, un bel libretto in bianco e nero che descrive le caratteristiche direzionali di 1 microfono, invita gli ascoltatori a esplorare le potenzialità del loro 3° occhio, riporta testi e crediti delle canzoni, qualche nota surreale e l’annuncio satirico/demenziale di un immaginario concorso per “mangiatori di dischi ” in cui non mancano le frecciate a Richard Nixon e al Governo americano.

E poi quel titolo, Manhole: inteso letteralmente come buco. In altre parole, vagina. Provocatoriamente antifemminista, anche se in un periodo in cui il termine non è ancora stato coniato e in un mondo maschilista come il rock, forse nessun’artista incarna come Grace il concetto di woman empowerment (del resto la provocazione era il suo forte: qualche anno prima, con Silver Spoon, aveva sbeffeggiato i suoi vicini di casa tutti rigorosamente vegetariani). «Continuavano ad assillarmi con la liberazione femminile e decisi di essere sarcastica. Di definirmi niente altro che una fica. Pensavo che la gente lo avrebbe capito e invece non se ne accorse nessuno. Non vuol dire che io non mi piaccia. Era solo una trovata comica».

Da sempre innamorata della cultura latina, spagnola in particolare (Sketches Of Spain di Miles Davis girava da anni sul piatto del suo giradischi), decise che il suo tema da film l’avrebbe cantato per metà in quella lingua: siccome non la conosceva, per la traduzione simultanea dei testi chiese aiuto al domestico che ogni giorno le puliva casa. Funzionava sempre così, con Grace e con i Jefferson: più inclini a dare spazio alla casualità che alla progettualità, alla inspiration che alla transpiration, a seguire gli umori del momento piuttosto che a sudare 7 camicie.

Aveva funzionato spesso, e funzionò anche quella volta: umori latini pervadono la breve introduzione acustica di Jay, dove Slick arpeggia dolcemente alla chitarra e intona una melodia senza parole contrappuntata dal basso e dalla solista di Peter Kaukonen (fratello minore di Jorma), prima di esplodere in technicolor e in cinemascope in Theme From The Movie Manhole, una facciata di Lp e quasi 15 minuti e ½ di durata per una mini sinfonia avvolgente, sensuale, divisa in movimenti che si rincorrono e si ripetono. “La parte di piano suonata dalla mano sinistra ”, spiega la Slick nelle note di copertina, “è stata rubata da un’improvvisazione di Ivan Wing… Lui non se ne cura, è mio padre ”. La esegue lei, allo Steinway, mentre canta un inno all’amore libero, al sesso e all’assenza di gravità che sviluppa gradualmente il suo climax verso un aereo, orgasmico ed epico finale in cui la voce si libra verso la stratosfera ed esplode l’assolo al wah wah di Craig Chaquico, il giovane chitarrista enfant prodige che nel 1971, a 16 anni, era stato invitato da Kantner a suonare nell’album Sunfighter.

Non legatemi, voglio fuggiredatemi il sole ”. “Potete seguirmi, ma io me ne sono già andata ”. Sembra il manifesto della Summer of Love e di Haight Ashbury, ma anche una dichiarazione di fuga da un mondo già scomparso e in cui i musicisti, i poeti e gli intellettuali della controcultura hanno lasciato il posto a disperati, spacciatori, junkie e adolescenti scappati di casa. Intorno a lei girano vorticosamente i violini, le viole, i violoncelli, le trombe, i tromboni, i clarinetti, i corni francesi, i flauti e le percussioni della London Symphony, ma anche le voci di Kantner, di Freiberg e di David Crosby, il mandolino di Peter Kaukonen, la batteria di John Barbata, il basso di Jack Casady e del grande jazzista Ron Carter, già alla corte di Miles.

Perché il concetto di disco solista, nella famiglia Jefferson, era sempre pleonastico. E qui torna in azione la Planet Earth Rock And Roll Orchestra, o P.E.R.R.O., il collettivo aperto che aveva dato lustro alle opere precedenti di Kantner-Slick e in cui 1 valeva 1. Tanto che nella vibrante It’s Only Music Grace non compare neppure, mentre si ricongiunge la sacra triade del rock psichedelico di San Francisco: Paul e Frieberg celebrano la natura sfuggente, magica e misteriosa della musica su un testo scritto da Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead, mentre Gary Duncan dei Quicksilver Messenger Service svisa alla chitarra solista. Anche la conclusiva Epic (# 38) appartiene a quell’universo; e ha la stoffa dei migliori inni di Kantner (con un piccolo aiuto di Slick e di Jack Traylor) all’amore universale, alla pace e all’unione dei popoli, con tanto di citazione iniziale di Rudyard Kipling: un filo diretto la lega a Sunfighter e a Baron Von Tollbooth And The Chrome Nun, i dischi precedenti, anch’essi comunitari, di cui Manhole è in un certo senso fratello (o sorella), episodio conclusivo di una indimenticabile trilogia. Ma dato che qui la parola d’ordine è osare e l’idea è quella del kolossal, accanto all’orchestra, al synth, alla sezione ritmica e alle chitarre elettriche, dai solchi irrompe anche il suono di un battaglione di cornamuse scozzesi.

Un altro musicista destinato a un ruolo importante nel futuro prossimo, l’inglese Pete Sears, scrive la musica e accompagna Grace al piano in puro stile barrelhouse nell’unico vero blues registrato in carriera dalla cantante, Better Lying Down, testo adeguatamente zeppo di allusioni sessuali e 12 battute che trascinano la Slick sulle orme di Bessie Smith e in qualche localaccio sudista. E se non avete mai ascoltato il disco prima d’ora, attenzione al pezzo che apre la seconda facciata (la traccia N°3 sul Cd): il fragoroso urlo che introduce ¿Come Again? Toucan rischia di farvi saltare sulla poltrona e di lacerare le membrane dei vostri altoparlanti prima che la chitarra di Chaquico, ancora lui, vi conduca tra le morbide onde di un soft rock che evoca oziosi e rilassati pomeriggi sulla Baia mentre Barbata tiene un tempo dolce e flessuoso, Freiberg (autore della musica) si destreggia fra piano, percussioni, basso e chitarra e Grace gioca sul tema dei fraintendimenti e delle incomprensioni del linguaggio (tanto da pubblicare sul disco un testo completamente diverso da quello che canta).

Farà sognare molti di noi, da questa parte dell’Atlantico e qui in Italia, come tutte le altre canzoni del disco, quando Manhole arriverà nei negozi nel febbraio del 1974, mentre in patria i critici accuseranno la Slick di autoindulgenza e il pubblico mainstream castigherà l’album ignorandolo (N°127, appena, nelle classifiche di Billboard). Sorte immeritata, perché resta un disco bellissimo, anarchico e folle come le cose migliori della famiglia Jefferson. Con, in più, il sapore agrodolce di un addio. Pochi mesi dopo, la core band di Manhole, salutando il ritorno all’ovile del fondatore degli Airplane Marty Balin, tornerà in studio per registrare l’eccellente ma più quadrato Dragonfly gettando le basi di un futuro ricco di soddisfazioni commerciali ma artisticamente sempre più discutibile. Il vento sulla Baia aveva cambiato decisamente direzione e della vecchia, grande utopia nord californiana Manhole resterà l’ultima bandiera.

Grace Slick, Manhole (1974, Grunt)