Erano più o meno le 3 e ½ del mattino di domenica 17 agosto 1969 quando Sly and the Family Stone incendiarono la notte di Woodstock con una delle performance più straordinarie della leggendaria 3 giorni di pace e musica. Un set di 10 canzoni e di una cinquantina di minuti immortalato – in piccola parte – sul triplo Lp che documentava il meglio del festival e consegnato all’immaginario collettivo di più generazioni dalle cineprese di Michael Wadleigh: impossibile dimenticare quel travolgente e frenetico botta e risposta fra Sly, occhialoni scuri e giacca bianca a frange che lo faceva assomigliare a un albatro, e lo sterminato pubblico sulle note di I Want To Take You Higher.
Sylvester Stewart alias Sly Stone, che poco prima aveva fatto le bizze nel backstage perché non si sentiva ancora pronto ed era stato scaraventato sul palco dallo stage manager John Morris, una volta entrato in azione e in trance performativa voleva portare tutti più in alto con la sola forza della musica, magari amplificata da qualche additivo (come faceva sospettare l’uso di quel termine, high, già allora molto in voga per indicare uno stato di ebbrezza provocato dall’assunzione delle droghe).
Sly and the Family Stone
Con quel riff bluesato di chitarra contrappuntato da una scintillante sezione fiati e da un misterioso canto tribale (“Boom lakka lakka!” ) quel brano suonava come la colonna sonora di un baccanale. Un’estatica celebrazione, mistica e pagana, che gettava un ponte “tra James Brown e Haight Ashbury ” (il quartiere hippie di San Francisco), fra la Terra e la Luna calpestata poco meno di 1 mese prima da Neil Armstrong e da “Buzz” Aldrin. Diventò un inno della Woodstock Nation, per quanto pochi mesi prima fosse stato relegato al lato B di un singolo che aveva anticipato di poco la pubblicazione del 4° album del gruppo, Stand!. Il disco della svolta e del grande successo commerciale per la pittoresca tribù proveniente dalla Bay Area (anche se il leader e i suoi familiari erano originari del Texas): un vero melting pot che mescolava uomini e donne, bianchi e neri in un’epoca in cui nei gruppi musicali e persino nella società civile quella era una rarità assoluta.
Vestiti sgargianti da figli dei fiori, capigliature afro e parrucche bionde erano gli ingredienti di un look clamorosamente camp dietro cui si celavano musicisti abili, con l’argento vivo addosso e perfettamente integrati fra loro. La sorella Rose (Stewart) Stone al piano e alle tastiere, il fratello Freddie alla chitarra elettrica e l’altra sorella Vet ai cori insieme a Mary McCreary e ad Elva Mouton alias le Little Sister. E poi il poderoso e creativo bassista Larry Graham, Cynthia Robinson alla tromba, Jerry Martini al sax tenore e Greg Errico (in seguito collaboratore di Santana, Weather Report e David Bowie) alla batteria, gli unici 2 white in una formazione per il resto all black e in cui il leader suonava un po’ di tutto, riservandosi in I Want To Take You Higher un torrido assolo d’armonica. Tutti anche cantanti (gli Stewart avevano imparato ad armonizzare le voci in un gruppo gospel), tutti solisti e comprimari sull’altare del bene del comune, del groove perenne e della fusione di stili: funk, rock, soul e psichedelìa mescolati in un ribollente pentolone di musica meticcia, inedita e futuristica. Prima di chiunque altro e con 10 anni d’anticipo sul devoto discepolo Prince.
A dispetto della personalità strabordante e lunatica di Sly, ex disc jockey e session man molto quotato anche come produttore (di gruppi e artisti acid rock e prevalentemente bianchi), Stand! suonava come un disco al servizio del collettivo e non dell’ego, come un’orchestra di strumenti abilmente sovraincisi e di voci (alternate, in sequenza, all’unisono) che cambiava sembianze e umore da un minuto all’altro. Pervaso da un’energia, un ottimismo, una fede nel futuro e un entusiasmo figli del loro tempo: come in tanti hanno osservato, quell’Lp cristallizzava perfettamente la stagione dell’amore, lo spirito del movimento hippie e di quello per i diritti civili trasmettendo un messaggio d’armonia universale tra i popoli.
Ancora oggi suona come un album “all killer, no filler ”, senza riempitivi o momenti di stanca, che inebria e non lascia respiro nonostante la presenza di una jam di quasi 14 minuti, Sex Machine, che replica solo nel titolo il classico di James Brown e dà modo a tutti i musicisti di sfogarsi liberamente in assolo: Freddie con la sua chitarra wah wah, Sly con un vocoder infilato in bocca che ne distorce la voce, Graham con l’effetto fuzz applicato al suo basso, i fiati e la batteria di Errico che rallenta il ritmo fino allo stop finale come una locomotiva rimasta a secco dopo una folle corsa. Alla fine tutti scoppiano a ridere e qualcuno commenta soddisfatto «We blew your mind», vi abbiamo fatto esplodere la testa.
Il resto, però, sono canzoni. Canzoni memorabili: aperta da uno scenografico rullo di tamburi, Stand!, la title track, incita a battersi per il riscatto e la libertà individuale in un mondo in cui i nani di colpo svettano in altezza mentre attorno a loro i giganti crollano a terra, con una melodia che sarebbe stata perfetta per un musical alla Hair prima di quello scatenato, liberatorio e irresistibile gospel funk che occupa i suoi ultimi 40 secondi di durata (registrati agli studi Pacific High di San Francisco con il contributo di turnisti di studio non accreditati in copertina); lo stesso messaggio di empowerment emerge forte e chiaro dalla conclusiva You Can Make It If You Try che ispirandosi a un vecchio classico fine anni 50 di Gene Allison diventa un pulsante midtempo scandito dai riff dell’organo e in Sing A Simple Song, dove il funk viaggia a livello supersonico celebrando ancora una volta il potere lenitivo e salvifico della musica mentre Sly, Freddie, Rose, Graham e Cynthia si alternano alle voci.
Diventerà terreno di caccia fertile per tanti colleghi, generando una miriade di cover e di campionamenti in dischi hip-hop mentre all’epoca viene confinato sul retro di un singolo che sul lato A riproduce il pezzo più famoso del repertorio: la mega hit Everyday People, 2 minuti e 21 secondi d’assoluta beatitudine pop anni 60. Un’altra invocazione all’eguaglianza, alla pace e all’integrazione razziale con Rose che nei bridge fa il verso a una celebre filastrocca infantile, una frase (“different strokes for different folks ”, più o meno “ognuno ha i suoi bisogni e i suoi desideri ”) che entrerà nel linguaggio comune e Larry Graham che sperimenta la poi usatissima tecnica slap al basso. Sarà il primo 45 giri del gruppo a salire al N°1 in classifica, non solo in quella specializzata riservata ai dischi soul ma anche nella “generalista ” Billboard Hot 100 dove tra il febbraio e il marzo 1969 terrà la posizione per ben 4 settimane facendo da traino a un album che finirà per vendere 3.000.000 di copie risultando fra i best seller degli anni 60 e conquistandosi nel 2015 un posto fra i dischi conservati nella Library of Congress di Washington per meriti culturali, storici ed estetici.
Sylvester Stewart alias Sly Stone
Eppure, in Stand! qualche ombra appariva già all’orizzonte. L’anno prima era stato assassinato Martin Luther King, nei ghetti neri erano già esplose le rivolte e come scriverà nel 2020 il giornalista Peter Shapiro sulla rivista inglese Uncut in alcune canzoni dell’Lp sembra che Sly veda già sgretolarsi l’utopìa davanti ai suoi occhi. Succede nella provocatoria Don’t Call Me Nigger, Whitey, che su una magmatica e ossessiva base musicale contrappone “negri ” e “visi pallidi ” fotografando le tensioni razziali del momento mentre il leader sfoggia tutto il suo estro di fonico e produttore usando di nuovo la “talking box ” per trasformare la voce in un bizzarro strumento. E in Somebody’s Watching You (in seguito un successo per le Little Sister) che a un testo minaccioso e paranoico che evoca il Grande Fratello, intercettazioni e operazioni di spionaggio contrappone una dolce, soave e solare melodia in purissimo stile sunshine pop.
2 anni prima che lo scuro e claustrofobico There’s A Riot Going On (l’altro capolavoro della band) fotografasse il disfacimento dell’American Dream e 30 anni prima che Everyday People diventasse un jingle pubblicitario per uno spot della Toyota, Stand! rifletteva un mondo, uno stile di vita e una speranza che stavano rapidamente scomparendo: l’America e il mondo occidentale prima che la violenza, il sospetto e la miseria segnassero i primi anni del nuovo decennio; prima che il sogno di Woodstock si trasformasse rapidamente nell’incubo di Altamont.
Sly and the Family Stone, Stand! (1969, Epic)