È davvero Richard Thompson, venerato maestro del folk-rock inglese, quel lupo di mare con berretto da marinaio in testa e 2 gabbiani sulle spalle ritratto sulla copertina di Ship To Shore, con quei colori accesi e quello stile grafico un po’ fumettistico che ricordano le locandine dei film di Wes Anderson? Se non lo è, gli assomiglia comunque molto. È una sua proiezione fantastica e stilizzata, come i protagonisti delle 12 canzoni del disco in cui ancora una volta l’artista inglese scava i recessi più tenebrosi e reconditi della mente umana. Stavolta, però, con un umore più brillante del solito e con un sound particolarmente vibrante, spesso ritmato e a tratti quasi “pop ” (termine da maneggiare con cura, nel suo caso).

Viene da pensare che c’entrino, e non poco, le sue recenti vicende personali. Nel 2018 l’eccellente 13 Rivers, aspro, granitico e graffiante, si portava addosso le stimmate del divorce album; 6 anni dopo (in mezzo ci sono stati il Covid, 2 Ep semiacustici realizzati in casa e una bella autobiografia, Beeswing), Ship To Shore sembra cogliere il cantautore e chitarrista londinese di ottimo umore, probabilmente ringalluzzito dal suo 3° matrimonio e incline a una scrittura più immediata. Con una freschezza e una varietà stilistica persino sorprendenti, per un veterano che ad aprile ha compiuto 75 anni e che ama fare i dischi alla vecchia maniera senza stare a rimuginarci troppo sopra.

Richard Thompson

Aggiungendo alla sua collezione di chitarre acustiche ed elettriche un mandolino e una fisarmonica, l’ha registrato con un gruzzolo di collaboratori fidati abituati ad accompagnarlo dal vivo: Bobby Eichorn alle chitarre ritmiche, la coniuge Zara Phillips ai cori, un pilastro del genere Americana come Taras Prodaniuk (Dwight Yoakam, Lucinda Williams, Steve Earle) al basso elettrico e quel portento d’agilità atletica e spinta ritmica che è il batterista/percussionista Michael Jerome (Better Than Ezra, John Cale, Third Mind, Slash), mentre l’unico prezioso ospite, in un paio di pezzi, è un violinista carico di storia (e vicino di casa in New Jersey) come David Mansfield, che molti ricorderanno negli anni 70 alla corte di Bob Dylan nel grande circo viaggiante della Rolling Thunder Revue. Tutto si è svolto all’insegna della concentrazione e della rapidità d’esecuzione: una settimana di lavoro all’Applehead Studio di Woodstock con il fonico Chris Bittner per catturare su nastro take eseguite spesso dal vivo (parti vocali comprese), altri 3 o 4 giorni per i missaggi senza l’assistenza di un produttore, perché gli esperimenti fatti in passato con Buddy Miller (Electric, 2013) e Jeff Tweedy (Still, 2015) hanno dimostrato che in fondo Thompson può anche farne a meno.

Forse anche in conseguenza di questo approccio i pezzi di Ship To Shore suonano vivaci e filanti, ricchi di “ganci ” melodici, di ritornelli e di riff oltre che degli inconfondibili assoli di chitarra, qui più trattenuti e concisi di altre volte ma sempre fulminanti e funzionali al racconto; capaci di esprimere in una lingua spesso contorta ciò che le parole e i testi non dicono o fanno solo supporre. Non sono canzoni a tinte scure, quelle dell’album; piuttosto, come le ha definite lo stesso autore, «color ocra terra di Siena», anche se sotto quella crosta croccante si cela il classico mondo thompsoniano fosco e perturbato: i segnali che dalla sua nave raggiungono la terra ferma ci parlano ancora una volta di un’umanità avida, miserabile e spietata; di uomini in preda a turbamenti; di un senso d’alienazione e disagio collettivo: soprattutto quando si tratta di relazioni sentimentali e di rapportarsi al sesso femminile e al resto del genere umano esprimendo apertamente i propri sentimenti (un limite caratteriale tipico di una certa generazione inglese; e Thompson ne è pienamente consapevole).

Solo in Maybe, scandita da un ritmo battente e ossessivo in stile Motown, Richard lascia aperto uno spiraglio di speranza al suo goffo tentativo di conquista di una donna volitiva che molto sembra somigliare alla sua attuale compagna (“è una regina disco dell’epoca d’oro/le piace il primo Bowie e Kate [Bush] è la sua eroina ”), ironicamente e affettuosamente descritta come una persona amante del bel vestire e dello shopping compulsivo, della pulizia e del parlare sporco. Altrove invece è una strage di cuori infranti, un campionario d’occasioni perdute, una sequenza di delusioni e disillusioni. Così nel rockabilly di Trust e nel rock and roll di Turnstile Casanova, che suonano molto anni 60 e potrebbero essere state incise negli 80 (ai tempi di dischi come Across A Crowded Room e Daring Adventures); così nel mélo accorato di Lost In The Crowd, scritta pensando alla voce di Roy Orbison; e in 2 dei brani più belli della raccolta: l’acustica e latineggiante The Day That I Give In (in cui qualcuno non a torto ha ravvisato analogie con i Love di Forever Changes) e la sconsolata ballad What’s Left To Lose con una melodia agrodolce e arpeggi jingle jangle di chitarra in stile Byrds (non è un caso, dunque, che nei recenti concerti elettrici organizzati per promuovere il disco Thompson abbia riproposto la loro versione di The Bells Of Rhymney).

E se l’impeccabile ballata folk di sapore marinaresco Singapore Sadie farà venire l’occhio lucido a qualche vecchio fan dei Fairport Convention (il soggetto è un’altra donna affascinante e idealizzata – di nuovo Zara? – vittima di gelosie e maldicenze), la lugubre e irresistibile drone music di The Old Pack Mule ricorda semmai la Albion Band quando accompagnava Shirley Collins, Martin Carthy o i primi Steeleye Span; e il suo solenne andamento da marcia funebre medievale è un’efficace metafora di una società affamata e abbruttita in cui tutti sono pronti a sfoderare i coltelli e a smembrare il povero mulo da soma, passato a miglior vita, per procacciarsi la loro razione di cibo quotidiano. Thompson la descrive come un incrocio «fra il 600 e gli anni 60» del secolo scorso; ed è evidente il suo gusto nel rimescolare coordinate stilistiche, geografiche e storico-culturali: il gioco funziona anche nell’iniziale Freeze, un incalzante ibrido fra danza celtica, rock and roll e Maghreb che contrasta con l’immobilismo congenito del suo protagonista incapace anche di porre fine alla sua infelice esistenza; e in Life’s A Bloody Show, ritratto di un imbonitore da fiera di paese in cui in molti hanno ravvisato evidenti somiglianze con Donald Trump (era già successo anni fa con Fergus Laing), in un nostalgico clima musicale che combina un tocco di jazz al music hall e al cabaret della Berlino anni 20.

È un brano musicalmente abbastanza atipico per gli standard thompsoniani come lo è The Fear Never Leaves You, ipnotico, nervoso, trattenuto e avvincente: ispirato dalla visione di un documentario sui reduci del conflitto delle Falklands, il cantautore londinese torna al tema bellico ricorrente nel suo songbook disegnando i contorni di un personaggio afflitto da disturbo post-traumatico da stress sullo sfondo di uno slow teso e percussivo in cui Jerome è il grande protagonista. Solo alla fine, nel mosso country shuffle di We Roll, l’orizzonte si rasserena e Thompson riflette sulla sua vita invece d’osservare quella degli altri con lo sguardo indagatore di un detective. Quello che a prima vista sembrerebbe un commiato dal mondo della musica, è in realtà l’autoritratto di un musicista che alla sua veneranda età non vuol saperne di fermarsi e che non conosce altro modo di guadagnarsi da vivere, pronto a macinare centinaia di miglia in qualunque condizione atmosferica e a tornare a esibirsi periodicamente nelle stesse città.

Una folle routine in cui Richard, come tanti altri suoi colleghi, sembra trovare conforto ringraziando il suo pubblico per l’affetto dimostratogli finora e augurandosi di avergli portato «un po’ di gioia e un po’ di lacrime». Sarebbe la sigla di chiusura ideale di ogni suo show appena prima che cali il sipario e per il momento è il simbolico atto finale di un album solido, ispirato, succinto e consistente: insieme a Sweet Warrior (2007), che forse aveva più killer ma anche qualche filler di troppo, il migliore fra quelli che Thompson ha pubblicato negli anni 2000.