Come Elvis Presley nel 1968, 6 anni fa Matt Johnson aveva organizzato per i suoi The The un Comeback Special in piena regola: una serie di concerti culminati in una data alla Royal Albert Hall di Londra poi documentata in molteplici formati audio e video. Aveva spiegato, allora, di essere finalmente pronto a tornare in azione con un nuovo repertorio di canzoni, ma a quel punto il destino decise di giocargli un brutto scherzo costringendolo a un ricovero in ospedale e a una delicata operazione chirurgica per la rimozione di un ascesso faringeo che ne stava mettendo in pericolo la vita oltre alle corde vocali («Era come avere un piccolo pitone attorcigliato attorno alla trachea», ha raccontato di recente). Per 6 mesi dovette restare in assoluto silenzio, ma ancora una volta fu Elvis a offrirgli un appiglio quando, durante un party fra amici, si esibì al karaoke cantando Suspicious Minds e capendo di avere conservato il suo strumento più prezioso, la voce.

Matt Johnson
© Prudence Upton

Una voce che in Ensoulment, 1° disco di composizioni inedite in quasi ¼ di secolo che nel titolo fa riferimento al concetto filosofico e religioso di origine dell’anima, è protagonista assoluta, quasi mattatrice. Calda, profonda, avvolgente, a volte sussurrata, spesso recitante. Con un timing perfetto, un fraseggio e una dizione impeccabili. Perché oltre che un cantante Johnson è un grande storyteller, un attore consumato capace di molteplici sfumature interpretative in queste 12 canzoni inconfondibilmente sue che giocano di chiaroscuri e contrasti fra luce e tenebra, sul filo di una sottile tensione tra strofe claustrofobiche e ritornelli ariosi, con quelle tipiche atmosfere noir con cui sa fotografare il nostro presente distopico e scavare nelle viscere del cuore e della mente. Prediligendo stavolta i tempi lenti e una sorta di talking blues che rinuncia quasi completamente all’elettronica appoggiandosi su tastiere analogiche, vere percussioni e soprattutto chitarre, elettriche e acustiche, suonate da lui stesso e da Barry Cadogan (qui anche coautore), leader dei Little Barrie e già collaboratore di altre icone del pop britannico quali Morrissey e Paul Weller.

Ensoulment è essenzialmente un guitar album ma anche un disco dai sapori squisitamente inglesi come si addice a un East Londoner purosangue come Matt, che nella zona Est della capitale ha la sua dimora, il quartier generale della sua etichetta indipendente (Cinéola) e la sede di uno studio di registrazione in cui le nuove canzoni sono nate prima di prendere forma definitiva in una settimana di lavoro presso i Real World di Peter Gabriel (la qualità, la precisione e il dettaglio del sound sono uno dei punti di forza del disco).

Solo che quella Londra da lui tanto amata oggi Johnson non la riconosce più, stravolta com’è dai processi di inesorabile gentrificazione che stanno annullando ogni differenza fra un quartiere e l’altro a suon di ristrutturazioni selvagge e caro affitti. Lo confessa in Some Days I Drink My Coffee By The Grave Of William Blake, titolo chilometrico e suggestivo che già in sé racconta una storia (vera); quella dell’autore che, avendo spesso abitato nelle vicinanze, ha preso l’abitudine di fare visita alla tomba del grande poeta romantico eleggendola a luogo in cui riflettere e meditare con un bicchiere di caffè caldo fra le mani. È l’incipit di una ballata folk avvolgente dalla struttura musicale simile a quella del celeberrimo traditional americano The House Of The Rising Sun e che induce Johnson ad amari e nostalgici pensieri: la green and pleasant land celebrata da Blake è diventata oggi greedy e unpleasant, avida e sgradevole. Una perfida Albione destinata prima o poi a crollare sulle sue fondamenta.

Subito prima, nella livida e glaciale Cognitive Dissident, un ossessivo riff di basso elettrico suonato dal vecchio partner James Eller diventa il perno di un rock uptempo che allarga lo sguardo verso orizzonti più ampi e non meno foschi. Solo più enigmatici e confusi di un tempo, dato che oggi, canta Johnson, “la rivoluzione è stata autorizzata/Il futuro? Privatizzato/Il consenso? Creato ”, mentre “la destra è la sinistra/il bianco è il nero/dentro e fuori/la speranza è dubbio ”. Dissidente per natura, a 62 anni Matt si è fatto più saggio, riflessivo e fatalista, ma la lingua è sempre tagliente e polemica. Come Nick Cave, sonda le debolezze umane, i disturbi della personalità e il nostro desiderio di trascendenza; come un Roger Waters meno assolutista e manicheo punta il dito contro gli autoritarismi delle presunte democrazie, il cinismo dell’establishment e i poteri occulti. Invece di mandarlo in paranoia, il periodo d’isolamento forzato imposto dal Covid-19 l’ha spinto a concentrarsi sulla scrittura e gli è venuto sostanzialmente in soccorso. In fondo è sempre stato un solitario, che il meglio della sua arte lo ha concepito fra le 4 mura di casa sua; lasciando però sempre aperta una finestra sul mondo, sulla sfera pubblica e sulla politica, anche perché è cresciuto in una famiglia di solide basi progressiste e democratiche.

E così, avvolta nella sua fuliggine metropolitana e scandita da cadenze ipnotiche che sarebbero piaciute ai Portishead, Kissing The Ring Of POTUS (acronimo che sta per President Of The United States) è esplicita quanto la vecchia hit Heartland (1986) nel denunciare la sudditanza del “51° stato degli Usa ”, il Regno Unito, alla superpotenza del blocco occidentale. Johnson non chiude mai gli occhi davanti alla realtà che ci circonda («Come era solita dire Nina Simone», ha spiegato al sito Big Takeover, «ogni artista ha il dovere di riflettere i tempi in cui vive»): negli 80 lo faceva denunciando «il Thatcherismo, le Reaganomics, l’insediamento iniziale dell’agenda neocon/neoliberista»; oggi, riflettendo sulle insidie poste dall’intelligenza artificiale (sostenuta dal battito delle mani e dei piedi dei musicisti, I Hope You Remember (The Things I Can’t Forget) è un intrigante numero da cabaret del 21° secolo che sta fra Leonard Cohen e Bertolt Brecht) e sull’alienazione sessuale e sentimentale che caratterizza la società contemporanea (“benvenuti nel regno dei single ” sono le prime parole della sarcastica Zen And The Art Of Dating, in cui Johnson denuncia il vuoto relazionale che alimenta la proliferazione dei siti d’incontri in rete): l’opposto speculare, si direbbe, di quei momenti d’intimità e passione romantica vissuti nel periodo di passaggio fra adolescenza e vita adulta che tornano alla memoria in I Want To Wake Up With You fra incensi, candele, un camino acceso, corpi nudi e scambi di confidenze.

Ci sono un pianoforte in primo piano e molta, candida, autobiografia anche in Down By The Frozen River, dove si srotolano ricordi d’infanzia e di giornate invernali trascorse con gli amici a marinare la scuola (un modo di sfuggire all’indottrinamento del sistema, sostiene l’autore: «Ne sono fuggito con una testa vuota – ma con una mente aperta»), mentre fra i fraseggi liquidi di chitarra e gli accenti jazzati di batteria di Risin’ Above The Need, prende corpo una confessione sui tempi in cui Johnson era preda di pericolose dipendenze e «il troppo non era mai abbastanza»: il riscatto arriverà con la determinazione a sollevarsi al di sopra delle proprie pulsioni primarie.

Spesso, in queste canzoni, aleggia la presenza della morte e non c’è da stupirsene dato che, nella vita reale, Johnson ha dovuto spesso fronteggiarla. In Linoleum Smooth To The Stockinged Foot – il pezzo più sinistro e dissonante della collezione – una pulsazione elettronica assillante accompagna il racconto della recente e terrorizzante esperienza vissuta in ospedale, rievocando anche fisicamente il suo vagare inquieto, di notte, fra i corridoi del nosocomio avvolto nelle tenebre, indossando le calze chirurgiche antitrombo con il corpo imbottito di morfina e la testa in preda ad allucinazioni paranoiche; in Life After Life e Where We Go When We Die?, pop songs semplici e cristalline, ci sono invece i pensieri di un ateo in cerca di risposte sul senso della vita, sul mistero della nascita e sull’aldilà. Aperta da un arpeggio delicato di chitarra, la seconda è una tenera e commovente elegia dedicata al padre morto nel 2018; perché scrivere canzoni è da sempre per Johnson il modo più efficace di elaborare i lutti personali: l’aveva già fatto per lenire i dolori provocati dalle perdite della madre e dei fratelli Eugene e Andrew, grafico dal tratto inconfondibile cui si devono i disegni inediti riprodotti nel libretto di Ensoulment e lo sghembo ritratto picassiano scelto come immagine di copertina.

È la stessa, eccellente band di Comeback Special (con l’aggiunta qua e là di un violino, di strumenti a fiato o di qualche percussione e la presenza costante della seconda voce di Gillian Glover, mentre al banco di regia torna Warne Livesey, negli anni 80 coproduttore di Infected e Mind Bomb ) a sostenere Johnson in tutti i brani del disco intessendo arrangiamenti precisi, asciutti e puntuali: oltre al basso di Eller e alle chitarre di Cadogan ci sono le tastiere versatili di DC Collard e il drumming poliforme di Earl Harvin. Non serve altro, non sono necessarie grandi orchestrazioni né l’armamentario elettronico dei vecchi dischi per veicolare messaggi e ambizioni più misurate di un tempo: «Sono cresciuto pensando che la musica potesse cambiare il mondo», ha raccontato di recente al quotidiano Independent, «ma oggi non ho più quell’idea sbagliata di come stiano le cose. Credo che la cultura pop sia come le erbe e le spezie che guarniscono un piatto: il nutrimento principale lo forniscono i progettisti del nostro mondo, le infermiere o la gente che svolge un vero lavoro, noi non facciamo altro che dare un po’ di sapore in più».

Per questo bastano un’elementare e indovinata sequenza di accordi in staccato e una melodia luminosa per celebrare, in A Rainy Day In May, una giornata piovosa di maggio e un incontro casuale in treno che tolgono di dosso ogni residuo di tristezza. È una specie di catarsi, uno spiraglio d’ottimismo e un moto di fiducia. Anche se il futuro resta appeso a un dubbio e a un interrogativo: “Ti rivedrò mai, un giorno? ”.