Aleggiano fantasmi, nostalgie e ricordi ma anche un vibrante senso del “qui e ora” nel Comeback Special dei The The di Matt Johnson, testimonianza audio e video del concerto che il musicista londinese e la sua band hanno tenuto il 5 giugno 2018 alla Royal Albert Hall di Londra, pochi giorni dopo un’esibizione di riscaldamento all’Heartland Festival danese e a 16 anni di distanza dalle loro ultime apparizioni pubbliche.
Quel lunghissimo silenzio era stato interrotto solo da una serie di “programmi radiofonici a onde corte” scaricabili dal sito ufficiale dell’artista e da un pugno di colonne sonore realizzate per documentari, installazioni e piccoli film indipendenti. E di quell’assenza lo stesso Johnson non ha mai dato spiegazioni precise, aggrappandosi ai versi delle Inertia Variations del poeta John Tottenham (che intitolano anche un documentario biografico su di lui girato dalla ex compagna Joanna St. Michaels) quando qualcuno gli pone l’inevitabile domanda: «Che cosa hai fatto in tutti questi anni?».
© Andy Paradise
Un senso d’assenza è percepibile anche quando Matt e i The The si manifestano finalmente in carne e ossa sul palco davanti a un pubblico affettuoso, complice ed empatico: pochi giorni prima dello show, mentre recuperava i bagagli all’aeroporto di Stoccolma, Johnson aveva appreso la notizia della morte del padre a cui era fortemente legato (leggete la sua commossa dedica nelle note di copertina) e durante la performance alla Albert Hall volgerà ripetutamente lo sguardo verso il palchetto che gli era stato riservato e in cui avrebbe dovuto sedere. The show must go on, anche in memoria del genitore, ma quel tragico imprevisto alzerà ulteriormente la temperatura emotiva e il pathos di un evento di per sé memorabile, ora documentato su molteplici formati: doppio Cd, triplo vinile, Dvd o Blu-ray con le splendide immagini curate da Tim Pope e una costosa Art Book Edition che ai supporti digitali audio e video aggiunge altri 2 Cd e 1 libro di 136 pagine zeppo di foto, storie, testi, disegni e note.
Negli anni 80 di cui è stato una pungente coscienza critica, Johnson era stato artefice di un progetto sonoro affascinante e originale che qualcuno ha definito synth noir: un pop scuro ed elettronico venato di funk, soul e new wave; un tenebroso blues del 20° secolo affiancato a testi che disegnavano un presente e un futuro distopico. Con i The The, Matt ha cantato gli anni bui di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan; il trionfo dell’egoismo sulla solidarietà; le paranoie e i turbamenti della psiche; le malattie contagiose e le guerre innescate dalla sete di denaro; i sorrisi incerti di una generazione sopraffatta dalla perdita di senso e di identità; i giorni dell’Apocalisse e il declino di un Paese, la sua Inghilterra, prono agli Usa al punto da diventarne di fatto il 51° stato.
Matt Johnson
Ha creato un catalogo non sterminato ma importante, cui nel breve tour di ritorno sulle scene (con altre date in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Australia) ha attinto per costruire un’accurata scaletta di 24 titoli e sviluppare una narrazione suddivisa in 3 parti, «una politica, una emotiva e una metafisica», ripescando un paio di brani da 45 giri e oscuri progetti collaterali, 2 pezzi dal 1° album Burning Blue Soul (uscito originariamente a nome Matt Johnson), 3 da Soul Mining, Infected, Mind Bomb e NakedSelf (anno 2000, ad oggi il suo ultimo album di studio) e ben 6 da Dusk, un disco per cui prova evidentemente un affetto particolare (il motivo lo ha spiegato lui stesso in una recente intervista: «Lo scrissi dopo la morte del mio fratello minore Eugene», nel 1989, mentre il pezzo più nuovo in scaletta, la fatalistica We Can’t Stop What’s Coming, è dedicato all’altro fratello Andrew Johnson, scomparso nel 2016 e autore delle sue riconoscibilissime e spesso inquietanti copertine).
Non è inutile revival. Per chi le conosce, non è neanche troppo sorprendente verificare quanto quelle sue canzoni esistenzialiste e polemiche siano ancora attualissime, graffianti e commoventi. Il pilota militare di Sweet Bird Of Truth che prega prima di sganciare le sue bombe in Medio Oriente, assomiglia ai suoi epigoni che oggi manovrano droni provocando inevitabili “danni collaterali” nei punti caldi del globo. La sudditanza della politica estera britannica (ed europea) nei confronti di quella statunitense è percepibile come lo era ai tempi di Heartland. E non c’è neppure bisogno di ricordare quale forma di contagio ancora più diffusa e universale si sia sostituita alla piaga dell’Aids che Johnson cantava in Infected, o sottolineare l’urgenza dell’allarme ambientale che lanciava in Lonely Planet.
The The
Quel che cambia – ed è la scelta vincente – è l’abito sonoro di cui i The The di oggi rivestono i pezzi sostituendo le sonorità glaciali dei sintetizzatori e delle drum machine con i suoni naturali, asciutti e stilizzati prodotti da una band coesa che accanto al leader, posizionato davanti a 3 grandi microfoni con una Gretsch semiacustica a tracolla, schiera vecchie conoscenze – James Eller al basso, DC Collard alle tastiere, l’agile stantuffo ritmico Earl Harvin alla batteria – e il più giovane chitarrista Barrie Cadogan, già leader dei Little Barrie, collaboratore di Paul Weller e Primal Scream e raccomandato dall’indisponibile Johnny Marr. Niente basi preregistrate, niente click track, nessun sequencer o campionatore a rinforzare quel che il quintetto suona in presa diretta sul palco. «Volevo spogliare molte delle canzoni e ridurre sostanzialmente la tavolozza sonora», ha spiegato Matt, per nulla interessato a ricalcare le versioni di studio originali: il suo è un ritorno alle origini e alla semplicità esplicitamente ispirato a quell’altro, leggendario Comeback Special, quando 50 anni prima Elvis Presley tornava sulle scene insieme ai fidi Scotty Moore e DJ Fontana.
Matt Johnson non è il re del rock & roll ma un artista acuto, sensibile e visionario, per di più ancora provvisto di una voce profonda, autorevole e carismatica che ruba la scena e cattura subito l’attenzione. È soprattutto nelle ballate midtempo nate nell’humus del post punk anni 80 che trova il suo passo naturale, ma quando aumenta ritmo e volume il suo è un assalto che non fa prigionieri: si tratti delle chitarre rockabilly di Armageddon Days (Are Here Again), del riff lacerante di Dogs Of Lust, delle pulsazioni nervose di Infected o dell’ossessivo, percussivo funk di I’ve Been Waiting For Tomorrow (All Of My Life), giusto per ricordare, come spiega dal palco, che «i The The sono una dance band, ed è facile cantare le loro canzoni».
Quando affrontano un pezzo come The Beat(en) Generation, il restyling sonoro si dimostra un vero valore aggiunto: quel felpato walking bass introduttivo, quel ritmo rallentato, quell’esecuzione controllata, quegli accordi nitidi di chitarra e quello spettrale fraseggio di melodica, aggiungono un pizzico di disillusione e di matura consapevolezza a un testo che invita una generazione “cresciuta con una dieta a base di pregiudizio e disinformazione” ad aprire gli occhi e l’immaginazione (sembrano parole scritte oggi). Lì si esprime il climax della sezione “politica” dello show, dopo gli umori cavernosi e claustrofobici di Global Eyes; la voce filtrata e la tensione repressa di Sweet Bird Of Truth; il lounge pop, cool ma sinistro, della hit Heartland, prima che le canzoni che parlano di morte lascino il passo a quelle che trattano d’amore e di sesso (“il soggetto che tutti preferiscono”): intensa e accorata, Love Is Stronger Than Death è il perfetto momento di passaggio tra i 2 atti, mentre la sinuosa Helpline Operator racconta la disperazione di chi cerca conforto nella voce di uno sconosciuto attraverso la cornetta di un telefono.
Uno sfogo liberatorio e uno spiraglio di luce arrivano con il pezzo più celebre e pop dell’intero repertorio, This Is The Day, ancora perfettamente riconoscibile con quella sua andatura dinoccolata e folkeggiante: è un balsamo per i cuori e per le orecchie che Johnson ha scritto quando aveva 21 anni, in un momento cruciale in cui dalla solitudine, l’anonimato e la disoccupazione passava a un rapporto affettivo stabile e a un contratto discografico, stilando un primo bilancio agrodolce della sua esistenza e scorgendo finalmente nel futuro un alito di ottimismo e di speranza. Il suo feeling anni 80 non è intaccato dai nuovi arrangiamenti, e non è l’unica volta: in questa nuova versione, Bugle Boy non è molto distante dal Billy Bragg della maturità, mentre le melodie e le chitarre alla Smiths che Marr portava in dote quando era il braccio destro di Johnson, sono perfettamente riconoscibili in Slow Emotion Replay: musica veloce e inciso orecchiabile a contrastare il ritratto di un uomo in preda alla confusione (“Tutti sanno cosa non va nel mondo/io non so neppure cosa succede dentro di me”).
Dopo che in (Like A) Sun Rising Thru My Garden riverberano echi lontani di psichedelìa floydiana, l’epilogo catartico e liberatorio del concerto si apre con un altro titolo irrinunciabile, Uncertain Smile: Collard replica, raddoppiandone la durata, il trascinante e gioioso assolo di pianoforte jazz che Jools Holland suonava nella traccia di studio, mentre prima che il sipario si chiuda parte l’invocazione di Lonely Planet (“Se non puoi cambiare il mondo, cambia te stesso. E se non puoi cambiare te stesso… cambia il mondo”): è un’altra delle composizioni double face e multistrato di Johnson in cui si mischiano cupe previsioni e bagliori di luce, gioia e amarezza, presagi mortiferi e irrefrenabile vitalità. Dopo quasi 2 ore di musica non restano dubbi: avevamo ancora bisogno di quelle canzoni e di quelle parole. Se n’è reso conto anche lui, che forse non si farà attendere di nuovo così a lungo.