Era il 1984, erano gli anni del cool pop britannico e della riscoperta di un certo jazz in voga tra i 40 e i 60. Gli anni di Sade e degli Style Council, dei Working Week e degli Everything But The Girl (con qualche deriva più free come i Rip Rig + Panic). Di una schiera di giovani artisti dalle orecchie fini e dagli orizzonti ampi che al synth pop imperante, al grigiore dei tempi e all’avverarsi di certe profezie orwelliane – l’Inghilterra in bolletta, le politiche draconiane di Margaret Thatcher, il braccio di ferro con i minatori in sciopero, lo shock della guerra lampo delle Falkland – reagiva andando alla ricerca di stile, bellezza ed eleganza; di sonorità smooth, scintillanti e notturne.

Da Manchester arrivava un trio nato all’inizio del decennio dall’incontro fra la cantante Carmel McCourt e un suo compagno di corso al liceo artistico, il contrabbassista Jimmy Paris, che nell’avventura aveva coinvolto il cugino batterista Gerry Darby: lei bianca, nata in un piccolo villaggio vicino a Scunthorpe, centro siderurgico nel North Lincolnshire; loro cresciuti a East Finchley, nella zona settentrionale di Londra, di pelle scura e di razza mista (anglo guyanese Paris, anglo giamaicano Darby). Nutrivano interessi in parte simili a quelli dei loro colleghi – jazz, reggae, soul, afrobeat – , suggestionati a loro volta dal fascino della Francia e del grande American Songbook, ma restando fedeli a una ruvida estetica influenzata dal punk. mentre altri si rifugiavano in sonorità levigate e vellutate, ovattate e intimiste, loro preferivano alzare il volume per sprigionare una musica cruda, minimalista e selvatica. Era quello il tratto distintivo del 1° e omonimo Ep del 1982 uscito per la indie Red Flame che fece rumore nell’underground suscitando l’interesse delle major discografiche, conservato anche nel debutto su Lp per la London Records 2 anni dopo (dischi successivi, molto più sofisticati e arrangiati, saranno un’altra cosa ma non basteranno ad allontanarli progressivamente dai riflettori).

Carmel McCourt

The Drum Is Everything, la batteria è tutto, non era solo un bel titolo che ti restava in testa ma un manifesto programmatico illustrato anche nella stilosa e stilizzata copertina del grafico francese Serge Clerc che si era fatto un nome pubblicando piccoli racconti di fantascienza e una fanzine, ma soprattutto disegnando strisce e illustrazioni per riviste come Métal Hurlant, Rock & Folk, Melody Maker e New Musical Express prima di mettersi a realizzare buste per dischi di altri artisti come i Fleshtones e Joe Jackson. Quella che aveva creato per il vinile dei Carmel era un’immagine rétro e molto accattivante: sfondo bianco e nero e 3 pannelli colorati che raffiguravano 1 microfono vintage, 1 contrabbasso e il rullante di una batteria (gli elementi fondanti di certa musica di derivazione americana, come 8 anni prima in Italia ci aveva ricordato Lucio Battisti). Niente chitarre, niente basso elettrico (su insistenza della vocalist ), strumentazione base ridotta ai minimi termini.

La bionda Carmel, che allora non aveva ancora compiuto 26 anni, era una ragazza che amava Billie Holiday ed Ella Fitzgerald, Mahalia Jackson e Maria Callas, Frank Sinatra ed Edith Piaf (a cui molti anni dopo avrebbe dedicato un intero album di cover). Ma il suo 1°, vero idolo era stato Elvin Jones, batterista del leggendario quartetto di John Coltrane nella prima metà degli anni 60; e così si spiega quella sua fissazione per il ritmo e per la pulsazione ancestrale della musica d’origine africana. Era proprio la sostanza carnosa della black music a rimpolpare quel loro sound così ossuto a partire dal brano che apriva il disco: il giubilante e trascinante singolo More, More, More, un soul jazz da ascoltare schioccando le dita, scandito da un organo Hammond che Peter Saunders (già tastierista dei Dexys Midnight Runners e coautore del pezzo) suonava alla maniera di Jimmy Smith e che, come il videoclip realizzato per promuoverlo, passava improvvisamente dal bianco e nero al colore quando in scena entrava una big band fiatistica di 18 elementi, mentre la voce acuta e cartavetrata di McCourt dialogava con quella delle coriste Helen Watson e Shirley Laidley.

Il botta e risposta vocale innescava la miccia anche alla canzone messa in fondo al disco, un bellissimo gospel laico intitolato Bad Day, anche se stavolta la corista era Rush Winters e l’organista Steve Nieve, oggi come allora insostituibile braccio destro di Elvis Costello. Il brevissimo scambio di battute e il riscaldamento vocale che introducevano il pezzo sottolineavano che si trattava di una registrazione dal vivo in studio, in omaggio a quella spontaneità che il produttore Mike Thorne (Urban Verbs, Wire, Soft Cell, John Cale, The The) si premurò di conservare in tutte le session tenute fra vari studi di Londra compresi i Ramport appartenuti agli Who.

More, More, More e Bad Day non erano soltanto il punto di partenza e di arrivo del tragitto. Erano anche i 2 singoli che entrarono nella Top 25 britannica aiutando l’album a salire fino a un lusinghiero 19° posto in classifica. Erano l’anima gioiosa e quella blues di un Lp che fra quei 2 estremi racchiudeva proposte coraggiose e sperimentali lontane dall’easy listening e dal pop commerciale. Il minuto e 46 secondi di I Thought I Was Going Mad erano un’eruzione vulcanica di pura frenesìa vocale (con tracce sovraincise) e percussiva (con gli strumenti acustici mixati ai pad elettronici); un sabba tribale in sintonia con l’altrettanto breve e martellante groove della title track che la precedeva, ripescata dal repertorio di un compositore statunitense, Lincoln Chase, attivo dagli anni 50 ai primi 70.

Rockin’ On Suicide, che apriva la seconda facciata del vinile, mandava messaggi contraddittori fra un testo che trasmetteva un senso di autocommiserazione sentimentale e una musica vivace, swingante e fiatistica (di nuovo i Sounds 18) alla Duke Ellington. E Rue St. Denis era una vivace cartolina ricordo ispirata a una delle prime visite del trio a Parigi e alla sua strada più pittoresca e multietnica, affollata da prostitute e trafficanti di ogni genere: percussioni e poco altro, ipnotiche e ossessive, con i contributi di 2 “maestri ” dello strumento e dell’afrobeat, il suonatore di congas e bongos nigeriano Johnny Folarin e il ghaniano IsaacKofiOsapanin che anni prima aveva suonato con Ginger Baker, mentre il toasting di Crazy Joe aggiungeva un intenso profumo di ganja giamaicana a quel quadretto cosmopolita e metropolitano in cui la voce di Carmel, carica di echi, aleggiava spettrale sullo sfondo. I due master drummers comparivano anche in The Prayer, un lamento scarno e accorato in cui contrabbasso, batteria e percussioni si prendevano di nuovo tutta la scena con sonorità spigolose e metalliche per quasi 2 minuti, prima che McCourt iniziasse a intonare la sua supplica sfoderando acuti taglienti e un timbro non ancora addomesticato dall’esperienza e dalla tecnica.

Il trio mancuniano aveva coraggio da vendere e lo dimostrava anche nelle cover, destrutturate e scarnificate, di 2 celeberrimi standard jazz: una Stormy Weather (nel repertorio di Billie Holiday e Frank Sinatra, Ella Fitzgerald e Judy Garland, Etta James e centinaia di altri), aspra come un frutto acerbo e spoglia come un albero in inverno; e una Willow Weep For Me accelerata, anfetaminica e scheletrica. Quasi irriconoscibile, così come lo era Tracks Of My Tears, lo sfavillante classico Motown di Smokey Robinson & the Miracles che i Carmel avevano già inciso per l’Ep di debutto e che sulle ali dell’Hammond di Saunders planava da Detroit a Londra diventando un pezzo squisitamente British, perfetto per una sequenza cinematografica notturna fra vicoli bui e marciapiedi bagnati di pioggia.

Riconoscibilissime erano le parole: e quando Carmel McCourt cantava “guardami bene in faccia/vedrai che il mio sorriso sembra fuori posto/se mi osservi più attentamente/è facile rintracciare i solchi delle mie lacrime ”, ti rendevi conto che lì stava in fondo il cuore di un album pieno di angoli scuri e sorprendenti; e che a dispetto della giovialità contagiosa di More, More, More con l’edonismo ostentato e scacciapensieri di certa musica anni 80 aveva davvero poco da spartire.

Carmel, The Drum Is Everything (1984, London)