Era il momento del new cool, di una generazione di giovani artisti che rispondeva alla crisi economica e alle fratture sociali dell’Inghilterra primi anni 80 cercando conforto nell’eleganza e nella raffinatezza della musica dei 50’s e dei 60’s, nel jazz e nel soul, rivisitati per renderli attuali, significativi e contemporanei con un tocco inconfondibilmente British. 2 album di debutto identificativi di quella breve e proficua stagione emersero quasi contemporaneamente nello stesso luogo. Diamond Life di Sade Adu e del suo gruppo scalò le classifiche inglesi e americane, infranse ogni record raggiunto in precedenza da un Lp di un’esordiente e arrivò a vendere oltre 10.000.000 di copie nel mondo; Eden degli Everything But The Girl si fermò a un ventesimo di quelle cifre ma si issò in patria fino a un ragguardevole N°14 nelle charts conquistando un solido status di culto.

Oltre al periodo di uscita (luglio e maggio 1984, rispettivamente) li accomunava la sala di registrazione in cui avevano preso forma e il produttore, quel Robin Millar che di quella nuova scena musicale era un demiurgo, un agitatore e una luce guida. Aveva appena rilevato gli storici Morgan Studios di Willesden, nel Nord Ovest di Londra, ribattezzandoli Power Plant Studios: lì, a fine estate 1983, gli erano bastati 9 giorni appena per registrare e mixare il 1° album in coppia di Tracey Thorn e Ben Watt, 2 anti star dall’aspetto dimesso e dall’aria timida che si erano guadagnati un bel credito e una piccola fan base grazie alle loro opere precedenti (2 Lp con le Marine Girls e un 1° album a suo nome intitolato A Distant Shore per lei; 1 Ep con la partecipazione di Robert Wyatt e 1 Lp solista, North Marine Drive, per lui) ancora prima che Paul Weller li chiamasse per reincidere The Paris Match e includerla in Café Bleu, il 1° album degli Style Council. Avevano scelto come ragione sociale un curioso slogan, Everything But The Girl (“tutto meno la ragazza”), rubato all’insegna di un negozio di mobili di Hull, la città portuale dell’East Yorkshire in cui entrambi avevano frequentato l’Università e dove, l’anno prima, avevano concepito accompagnandosi alla chitarra acustica le canzoni che sarebbero finite su Eden.

Tracey Thorn e Ben Watt

L’intimità e l’atmosfera domestica in cui erano nate sarebbe fortunatamente sopravvissuta nell’album, un cocktail ben dosato creato con l’aiuto di turnisti di valore ma che esaltava soprattutto le loro qualità: la voce suadente, malinconica, ipnotica, misurata e meravigliosamente naturale di Tracey (l’antitesi delle moderne urlatrici da talent show); il fraseggio chitarristico elegante, stiloso ed essenziale di Ben. Avevano messo le cose in chiaro con il loro debutto su 7 pollici, una cover di Night And Day di Cole Porter, mostrando la loro propensione a una musica di bella scrittura eseguita sottovoce. E lo confermarono con Each And Everyone, 1° singolo (Top 40, contro ogni previsione) e pezzo d’apertura di Eden: una bossa nova con fiati e percussioni impregnata di spleen inglese (un sentimento non troppo distante dalla saudade brasiliana) che esplicitava la loro passione per João e Astrud GilbertoAmavo il suono caldo dei loro dischi», ha spiegato Watt anni fa sul suo sito Web; quello stile che «sembra catturare la malinconia e la bellezza allo stesso tempo»).

Malinconia e bellezza sono anche gli ingredienti principali di Eden, in cui le voci, le chitarre e le tastiere dei 2 coprotagonisti si circondano di comprimari di valore a partire da Simon Booth alias Simon Emmerson, altro protetto di Miller, chitarrista, leader dei Weekend e poi dei Working Week e figura chiave del “movimento” incontrato dalla coppia fra il pubblico di un concerto all’ICA/Institute of Contemporary Arts di Londra. Fu lui a raccomandare 1 bassista colombiano, Chucho Merchan; e 1 percussionista brasiliano, Bosco D’Oliveira, mentre il batterista sperimentale Charles Hayward del giro Rough Trade venne scelto per il suo stile lontano dai canoni del rock tradizionale e i fiatisti Peter King e Dick Pearce erano vecchie conoscenze di Ben quando suonava nel gruppo jazz di cui suo padre era bandleader.

Avevano un background culturale di tutto rispetto, Tracey e Ben: giovani intellettuali che amavano i dischi dell’etichetta Blue Note, Billie Holiday e le buone letture, ma che guardavano curiosi a quel che succedeva intorno. Lei si era aperta la mente con il classico femminista Sexual Politics di Kate Millett; con William Blake e con Albert Camus; con Virginia Woolf e con Sylvia Plath. Lui adorava Stan Getz quanto John Coltrane; John Martyn non meno di Nick Drake. Di tutto questo si trovano tracce sparse, orme più o meno marcate, nei solchi di Eden. Bossa e Brasile dipingono gli sfondi anche di altre canzoni, Even So e I Must Confess, che di Each And Everyone sembrano quasi appendici; capitoli successivi di uno stesso racconto punteggiato da delicati arpeggi di sei corde acustica e da nacchere, da brevi soli di sax e da succinti interventi di chitarra elettrica. E di Bittersweet, un midtempo agrodolce come da titolo, movimentato da un fluido e corposo intreccio di chitarre che si ritrova anche in Another Bridge, ravvivata da un indovinato contrappunto di organo.

Lo suona Ben, che in Frost And Fire, liquida e vagamente psichedelica, sembra voler rievocare con la sua tastiera e con una elettrica in stile Robby Krieger persino i Doors, anche se una volta di più le parole del testo scritto dalla Thorn ricordano l’asciuttezza di un kitchen sink drama inglese piuttosto che la poetica visionaria e allucinata di Jim Morrison. Watt si concede anche un breve intermezzo strumentale be-bop (Crabwalk, con assoli di tromba e di sassofono) e si avvicina 2 volte al microfono con la sua voce mesta, pacata e mansueta; duetta con la compagna in un’impeccabile jazz ballad a lume di candela come Tender Blue (il testo racconta un quadretto di incomunicabilità familiare: lui che di notte giace sveglio a letto, lei che dorme con la faccia rivolta verso il muro) prima di chiudere in solitaria fra gli arpeggi, gli accordi discendenti e i glissando di basso di Soft Touch, un tocco che più soffice non potrebbe davvero essere.

Tra il pop jazz di Fascination e il pop folk di The Dustbowl e di The Spice Of Life, un’altra soave perla ispirata alla caducità dei sentimenti e delle convinzioni umane (“ciò che credevo sarebbe durato sta cadendo a pezzi ”), si muove il resto di un disco stupendamente transitorio, assemblato nel momento in cui Thorn e Watt trovavano un territorio comune portandosi dietro un bagaglio umano e professionale diverso. È probabilmente uno dei segreti del fascino elusivo di Eden, della sua intrigante impalpabilità: quando il disco arriva nei negozi, annunciato da una copertina astratta che Jane Fox delle Marine Girls aveva concepito come un collage tridimensionale, sono passati 8 mesi circa dal suo completamento, complice un complicato trasferimento di contratti dalla Cherry Red alla Blanco y Negro, piccola indie che può contare però sulla promozione e sulla distribuzione della major Wea.

E quando appena 4 settimane dopo esce il nuovo singolo Mine, è chiaro che gli EBTG si sono già spostati altrove, stregati dagli Smiths, dai testi di Morrissey, dalla chitarra di Johnny Marr e dal loro sound che mescola il rock anni 60 dei Byrds con la sensibilità tormentata del post punk. Quell’Lp di debutto sembra già non appartenergli più; e infatti si spenderanno il meno possibile per promuoverlo: intanto, però, fotografa un momento irripetibile e sventola la bandiera di un minimalismo delicato e introspettivo in un mercato dominato da idoli per teenager, synth pop e videoclip. All’epoca in cui Hull, come sottolineavano scherzosamente gli Housemartins nel loro Lp di debutto, batteva Londra 4 a 0 grazie a loro, ai Red Guitars, ai Gargoyles e, ovviamente, agli Everything But The Girl.

Everything But The Girl, Eden (1984, Blanco y Negro)