«Chiunque abbia registrato John Coltrane e Jack Kerouac non può essere così male». Gil Scott-Heron (1949-2011) – giovane, dotato e nero, come cantava Nina Simone – aveva appena 21 anni quando nel 1970 gli arrivò l’offerta di un contratto discografico da parte di Bob Thiele, bianco e di quasi 30 anni più vecchio di lui: una vecchia volpe della discografia che in carriera aveva incrociato tanti giganti del jazz afroamericano e che, dopo avere litigato con il suo capo alla ABC/Impulse, s’era fondato una sua etichetta, Flying Dutchman, riuscendo a ottenere un finanziamento dalla Philips olandese.

Bastavano e avanzavano, quelle credenziali, per il giovanotto educato nelle migliori scuole (per neri) degli Stati Uniti e che nei confronti dei whitey aveva qualche fondato pregiudizio. Anche Thiele non aveva bisogno di farsi convincere da qualcuno: quel ragazzo era ancora semisconosciuto, al di là di certi circoli letterari, ma si capiva che aveva stoffa oltre a un retroterra ragguardevole alle spalle. Era un poeta di strada più che un musicista, anche se suonava il pianoforte e la chitarra, con un padre giamaicano che – 1° uomo di colore in Scozia – aveva giocato a calcio nel Celtic Glasgow, una madre insegnante e una nonna che dopo il divorzio dei genitori lo aveva cresciuto nella sua casa di Jacksonville, nel Mississippi, trasmettendogli la passione per la causa dei diritti civili e l’amore per l’opera del poeta, drammaturgo e romanziere Langston Hughes, prima di lui allievo della Lincoln University in Pennsylvania. Lì aveva conosciuto il suo futuro partner musicale, il pianista Brian Jackson, e tra i 2 era subito scoccata una scintilla: Jackson aveva capito di avere incontrato il suo Hughes, Scott-Heron (che aveva già pubblicato un romanzo e una raccolta di poesie) di avere trovato un medium capace di tradurre in accordi e melodie i suoi versi, le sue intuizioni e i suoi pensieri.

Avevano fatto le prove generali insieme a un amico comune, Victor Brown, in una band chiamata Black & Blues, il budget ristretto messo a disposizione da Thiele per il 1° album Small Talk At 125th And Lenox (testi recitati su musica, alla maniera dei Last Poets) aveva costretto Gil ad accontentarsi dell’accompagnamento di 3 percussionisti, ma con il successivo Pieces Of A Man era arrivato finalmente il momento di fare un passo oltre con 1 disco cantato, suonato, prodotto e arrangiato come si deve, auspicabilmente destinato a un mercato più ampio.

Gil Scott-Heron (1949-2011)

Bastano 2 giorni soltanto di lavoro negli studi RCA di New York, il 19 e il 20 aprile del 1971, per fissare su nastro 11 canzoni; e l’album arriverà nei negozi prima della fine dell’anno, facendo compagnia negli scaffali a What’s Going On di Marvin Gaye e a There’s A Riot Goin’ On di Sly & The Family Stone: 2 dischi che come Pieces Of A Man fotografavano lo stato della Nazione e coglievano l’umore dell’America afroamericana dopo gli omicidi di John e Robert Kennedy, di Malcolm X e di Martin Luther King. Rispetto a quella degli illustri e rispettati colleghi, la musica di Gil è più radicale, più asciutta, più arrabbiata, a tratti più polemica: anche se è lui il 1° a sottolineare di non intendere le sue canzoni come dei manifesti o dei pamphlet, l’equivalente di un giornale o di un notiziario, ma di volere cogliere la vita della comunità nera in tutti i suoi aspetti: drammi e tragedie, ma anche gioia e bellezza.

«Chi vorresti in studio con te?», gli chiede Thiele. «Voglio Ron Carter e Hubert Laws», risponde lui in tono scherzoso, non credendo alle sue orecchie quando il discografico gli comunica che i suoi 2 eroi hanno accettato l’invito. Con Jackson al piano, Burt Jones alla chitarra elettrica e un’altra leggenda, BernardPrettyPurdie alla batteria (in quel momento è direttore musicale della band di Aretha Franklin) prende forma un gruppo straordinario, mentre un altro pezzo grosso come Johnny Pate, che alla ABC aveva lavorato con gente come gli Impressions e B.B. King, viene incaricato di curare le orchestrazioni. In studio il feeling è live, il suono in presa diretta, il senso di spontaneità eccitante. I 3 minuti o poco più di The Revolution Will Not Be Televised (recuperata dal 1° disco e registrata ex novo) diventano materia da libri di storia sociale e della musica, il prototipo di tutto l’hip-hop degli anni successivi: la batteria agile di Purdie e l’elastico basso elettrico di Carter ne sono i pilastri essenziali, un motore propulsivo inarrestabile, mentre sopra di loro volteggia inatteso il flauto di Laws e la voce baritonale di Scott-Heron sciorina rime a raffica avvertendoci che la rivoluzione non verrà trasmessa in tv.

Nel testo, si susseguono in un montaggio frenetico immagini, flash, nomi di politici, di star del cinema e della musica pop. Richard Nixon e Joni Mitchell, Johnny Cash e Steve McQueen, Tom Jones e Natalie Wood, simboli e icone dell’America di quegli anni. È un’irruzione a gamba tesa, un proto rap militante che farà milioni di proseliti anche se il disco inizialmente non venderà più di 20-30.000 copie. Ma già con la successiva Save The Children l’album cambia registro e i musicisti allestiscono un set completamente diverso: con un pathos, una compassione e una dolcezza degni di Curtis Mayfield, Scott-Heron canta del futuro dei bambini cui un giorno toccherà salvare il mondo e che gli adulti devono preoccuparsi di proteggere, mentre intorno a lui flauto e chitarra elettrica, piano elettrico e sezione ritmica ricamano una musica soffice e struggente, smooth jazz e latin soul a contornare uno squarcio di poesia urbana.

Un groove irresistibile detta legge nei 2 pezzi successivi, per il resto quasi antitetici per i messaggi che veicolano. Lady Day And John Coltrane è un altro classico istantaneo, un formidabile funk soul pilotato dal piano elettrico che celebra il potere curativo della musica e l’arte di chi, come Billie Holiday e John Coltrane, è capace anche nei giorni più bui di sgombrarti la mente da ogni preoccupazione. Subito dopo Home Is Where The Hatred Is, che Esther Phillips farà sua dopo essere uscita da un periodo di riabilitazione, descrive con spietata crudezza le miserie del ghetto: casa non è dove si trova il cuore, come Elvis Presley cantava per confortarci nella colonna sonora di Kid Galahad (Pugno proibito) una decina di anni prima; è invece un posto in cui cova l’odio, dove incontri un tossico mentre torni a casa al crepuscolo; un luogo che si riempie di urla silenziose, di sogni incipriati e in cui sarebbe meglio a volte non fare più ritorno. Un inferno di solitudine, alcol e droghe in cui lo stesso artista finirà inghiottito anni dopo.

È il riflesso scuro dei 2 pezzi che chiudono la prima facciata, quella più strumentata e arrangiata del disco; e da cui filtrano invece luminosi raggi di sole e di speranza: When You Are Who You Are, un invito a essere se stessi e a non nascondere la propria natura, anticipa l’acid jazz tra le rapide scale di basso di Carter e il sax brioso e svolazzante di Laws; in I Think I’ll Call It Morning il pianoforte a coda amplia il respiro di una ballata estatica e ottimista, un inno alla rigenerazione spirituale che trova nella contemplazione delle bellezze naturali la sua fonte di vita e di energia positiva.

Il drumming sostenuto, gli arrangiamenti dinamici e la spinta ritmica della chitarra elettrica che accompagnano le acute osservazioni sociologiche di The Needle’s Eye (un riferimento biblico alla metafora del cammello e della cruna dell’ago) sono un’evidente eccezione in una seconda facciata molto più spoglia, jazzata e meditativa in cui tutto poggia sul dialogo tra la voce espressiva di Scott-Heron e i ricchi, eleganti fraseggi pianistici di Jackson. Li accompagna magistralmente il contrabbasso di Carter in Pieces Of A Man, uno psicodramma musicale di straordinaria intensità in cui l’autore racconta la storia straziante di un genitore che perde il lavoro e viene accusato di un crimine non commesso; un uomo ridotto a pezzi come i frammenti della lettera di licenziamento sparpagliati sul pavimento. Un analogo mood abita le meditazioni filosofiche di A Sign Of The Ages, dove Jackson mette a frutto le risorse melodiche e armoniche della sua tastiera; e la più mossa Or Down You Fall, Purdie a imprimere ritmo, il flauto di Laws in veste di battitore libero e la voce profonda di Gil che intona un altro invito a solidarizzare di fronte alle avversità (“Sarò al tuo fianco/e insieme affronteremo l’inversione delle maree ”).

Nella tensione costante fra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione che contraddistingue il disco, un amaro epilogo si sviluppa nei quasi 9 minuti e ½ finali, impegnativi e senza sconti di The Prisoner. Dove prigioniero è l’uomo ingabbiato dalle sue paure, dall’incapacità di comunicare e di assumersi le proprie responsabilità, mentre un contrabbasso stridente e cigolante suonato con l’archetto e i colpi sordi di una percussione spalancano le porte a una jazz ballad maestosa e tenebrosa che si chiude con un’invocazione di aiuto e con la più terribile delle ammissioni: l’odio e la violenza che ci circondano hanno origine in ognuno di noi; e solo l’amore, la musica e la presa di coscienza collettiva possono salvarci. Pochi, pochissimi, anche fra i suoi fratelli neri, lo avevano saputo e lo sapranno raccontare con la lucidità, la passione civile, l’empatia e il sentimento che Gil Scott-Heron ha infuso in Pieces Of A Man.

Gil Scott-Heron, Pieces Of A Man (1971, Flying Dutchman)