Compie oggi 50 anni tondi Made In Japan, il disco dal vivo scolpito nella memoria collettiva che come nessun altro incarna lo spirito dell’hard rock anni 70: l’apoteosi di un certo modo di fare musica e dei Deep PurpleMark II”, il classico quintetto composto da Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Jon Lord, Roger Glover e Ian Paice. Il doppio album live, allora, era uno status symbol, un traguardo obbligato per i grandi gruppi rock. Voleva dire che avevi le palle. Che non eri un prodotto di laboratorio e che in concerto davi il meglio di te. Che sul palco sapevi trasfigurare te stesso e il tuo repertorio sfogando il tuo virtuosismo, improvvisando ed estendendo le canzoni a piacimento. Che potevi permetterti di chiedere ai fan un esborso extra (volutamente contenuto, in questo caso) in cambio di un souvenir, di una testimonianza sonora che non li avrebbe delusi.

I Purple ci arrivarono alla fine del 1972. Prima degli Uriah Heep, molto prima dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath (preceduti, nella categoria pesi massimi del rock, dai Grand Funk Railroad, che però non godevano in Italia e in Europa dello stesso seguito). E Made In Japan, come Led Zeppelin IV e The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, diventò da quel momento un oggetto ubiquo e di largo consumo; un vinile immancabile nella tua collezione di dischi se volevi entrare in sintonia e parlare la stessa lingua dei tuoi coetanei. Era un live diverso dai tanti che lo precedettero e lo seguirono, perché non c’era trucco e non c’era inganno: warts and all, come dicono gli anglosassoni, errori compresi. Senza nessuna correzione in post produzione, nessuna sovraincisione successiva, nessuna parte vocale ricantata, nessun assolo ricostruito come un Frankenstein incollando frammenti di nastro registrati in momenti diversi. Un prodotto onesto, e uno specchio fedele della realtà.

Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Ian Paice, Roger Glover, Jon Lord

Ci arrivarono quasi per caso, e senza troppa convinzione, i 5 inglesi, spinti dalla casa discografica giapponese che pensava così di capitalizzare la popolarità conquistata con il recente tour. Lo assemblarono pescando soprattutto dal 2° show nel Paese del Sol Levante, 16 agosto 1972 alla Festival Hall di Osaka; e aggiungendovi 1 pezzo eseguito nella stessa sala la sera precedente e 2 ripresi dall’esibizione del 17 al Nippon Budokan di Tokyo. Ingaggiato il fidato Martin Birch come fonico e controllati gli standard delle apparecchiature a disposizione, una volta ascoltati i risultati decisero che valeva la pena di distribuirlo ovunque, anche per fronteggiare la diffusione crescente dei bootleg che sottraevano denaro a loro e alla loro etichetta, la Purple Records distribuita dalla EMI.

Fu come pescare un biglietto vincente alla lotteria, perché Made In Japan ne avrebbe aumentato a dismisura il profilo dopo 3 dischi di studio di grande e crescente successo come Deep Purple In Rock, Fireball e Machine Head. Da quell’ultimo Lp uscito a fine marzo 1972, arrivava Highway Star eseguita in apertura e ci si accorgeva subito della differenza: l’auto sportiva di cui i Purple magnificavano le forme e le prestazioni sembrava avere incorporato un motore turbocompresso, correva oltre i limiti di velocità mentre le mani di Lord sui tasti dell’Hammond B-3 e quelle di Blackmore sul manico della Stratocaster ingaggiavano un duello selvaggio.

La foto di copertina incastonata nella celebre busta di cartone color oro li ritrae agli estremi del palco: a sinistra per chi guarda c’è zio Jon, il fratello maggiore, “l’unica specie di leader che i Deep Purple abbiano mai avuto” (come ha scritto Gillan nel 2013, ricordandolo dopo la morte nelle note di copertina di Now What?!); a destra il cavaliere nero, lungo e ombroso, deciso a impressionare il pubblico con effetti speciali e a vincere la competizione con l’altro solista del gruppo assicurandosi che il suo strumento uscisse dalle casse con più volume e potenza degli altri. In mezzo, un cantante fin troppo modestamente convinto che “i Deep Purple sono sempre stati un gruppo strumentale e orientato alla performance, mentre io non faccio altro che cavalcare il pony” (come ha dichiarato quest’anno al mensile inglese Mojo) e una sezione ritmica compatta come il calcestruzzo: Glover con il suo cappellaccio da stregone che pizzicava le 4 corde del basso con la lancetta perennemente in rosso seguendo i beat e le variazioni di Paice, un batterista buono per tutte le stagioni, capace (quasi) di tuonare come John Bonham e di swingare come Gene Krupa.

Ascoltatelo sbracciarsi e scatenarsi nel lunghissimo, immancabile (negli anni 70) assolo di The Mule, oppure lavorare di fino in Lazy, un blues jazz (con Gillan all’armonica) da club londinese dei Sixties se non fosse amplificato oltre il muro del suono, introdotto da un organo in overdrive e con un timbro talmente distorto da renderlo quasi irriconoscibile. Gillan, dotato allora di polmoni d’acciaio e di una prestanza d’atleta («Mi sentivo come un saltatore con l’asta») ha il suo massimo momento di gloria quando, dopo la intro sommessa e orientaleggiante, si strappa l’ugola in Child In Time (ancora più che nella versione di studio di In Rock) e quando gioca a rimpiattino con Blackmore in Strange Kind Of Woman, prima di un triplo acuto finale che scuote, brutalizza e sottomette l’adorante pubblico nipponico. Ritchie, intanto, aveva condotto il brano verso la sua travolgente cavalcata finale, come Attila alla guida degli Unni in un Paese straniero pronto a rendere le armi.

I quasi 20 minuti finali di Space Truckin’ sono un ottovolante altrettanto ubriacante: un boogie rock cosmico in cui Lord sembra voler gettare un guanto di sfida a Keith Emerson e Blackmore ricavare dalla sua nera Strat ogni effetto possibile, compresi i suoni sospesi e a mezz’aria di un qualche strumento ad arco. Si capisce perché sia diventato il modello di tanti chitarristi amanti del barocco e del neoclassico applicati alla forza bruta del rock duro: è l’essenza del chitarrista solista e un Mago Merlino dei guitar licks, l’inventore del riff più famoso e replicato della storia del rock (insieme a Whole Lotta Love), che tutti abbiamo mandato a memoria e tutti hanno cercato di replicare copiando la versione di Made In Japan (con la sua introduzione interrotta e poi ripresa) e non quella di Machine Head: non c’è neanche bisogno di ricordare che è Smoke On The Water “IL” pezzo che consegna definitivamente il doppio live all’immortalità e che ancora si ascolta a ripetizione nelle playlist delle stazioni classic rock di tutto il mondo (la Warner americana ne farà un hit single accoppiandolo alla versione di studio, ma attenderà l’aprile del 1973 per pubblicare l’album concedendo prima spazio a Who Do We Think We Are, il nuovo disco di studio).

Il sempre autocritico Gillan non è mai apparso troppo soddisfatto delle sue performance vocali. E a chi scrive ha ribadito di non avere neppure mai ascoltato l’album per intero («Non ho mai estratto il disco dalla sua custodia per metterlo su un lettore cd o su un giradischi. Non mi interessa ascoltare esecuzioni del passato»). Lord, d’altro canto, lo ha sempre indicato come suo Lp preferito dei Deep Purple e Paice si è spinto al punto di dire che «è ancora probabilmente il miglior album live di rock’n’roll che sia mai stato fatto». “Un metal monster”, come scrisse al momento dell’uscita Rolling Stone, che fotografa la potenza di fuoco, l’impatto devastante, la sfacciataggine e gli eccessi di una band e di una musica che avrebbe imperato ancora per qualche anno. Non più in quel modo, però, e neanche con quei protagonisti: giusto il giorno dopo l’uscita nei negozi di Made In Japan, il 9 dicembre del 1972, Gillan comunicava via telegramma al manager Tony Edwards la sua decisione di lasciare il gruppo, rispettando gli impegni fino alla fine del 1973 e subito imitato da Glover (le tensioni crescenti con l’ombroso e volitivo Ritchie il motivo principale del divorzio).

Proprio loro che ancora oggi, e a differenza del chitarrista, sono sempre lì con Paice a sventolare la vecchia bandiera anche se il vocalist non riesce più a cantare Child In Time Ho sempre pensato a quel pezzo non come a una canzone, ma piuttosto come a un evento sportivo olimpico», ha spiegato di recente all’emittente radiofonica spagnola RockFM), Lord non c’è più e di un rientro di Blackmore non se ne parla proprio («Sarebbe come rimettersi con la ex moglie»: ancora Gillan). Ma intanto quel doppio album con la copertina dorata è rimasto lì, nei salotti di milioni di case, a testimoniare una tempesta perfetta frutto di condizioni particolari e quasi irripetibili: poco dopo il vento avrebbe cominciato a girare da un’altra parte, e neanche i Deep Purple sarebbero mai più stati gli stessi.

Deep Purple, Made In Japan (1972, Purple Records)