Nel 1981, con i Teardrop Explodes, Julian Cope stava in cima alle classifiche inglesi, sulle prime pagine delle riviste musicali e sotto i riflettori di Top Of The Pops. 3 anni dopo, sulla copertina di Fried, lo ritroviamo nudo, carponi e con un guscio di tartaruga sulla schiena, intento a fissare il modellino di un camion nel mezzo del nulla (un cumulo di scorie ad Alvecote, nel Warwickshire).

Che sia fried (intossicato, inebriato, su di giri, drogato) non ci sono dubbi. Glielo dice di continuo anche la moglie americana, Dorian, con cui dopo lo scioglimento del gruppo si è rifugiato prima nella città in cui è cresciuto, Tamworth; e poi in campagna, a Drayton Bassett, 1.000 abitanti circa nel cuore delle West Midlands. Passa il tempo collezionando automobiline della Dinky Toys, strimpellando una tastiera giocattolo giapponese da 40 sterline acquistata dall’ex compagno di band David Balfe, cibandosi di frutta e di barrette Mars comprate alla stazione di servizio e soprattutto ingerendo Black and White, pasticche di speed grandi come supposte che ti mandano in orbita per 1 giorno e ½ alla volta.

Negli Spaceward Studios di Cambridge dove registra Fried, pochi mesi dopo avere pubblicato un debutto solista (World Shut Your Mouth) che avrebbe decisamente meritato miglior fortuna, non rinuncia alle sue bizzarre abitudini da acidhead. Striscia sul pavimento con il suo guscio di tartaruga sulla schiena, si piazza davanti al microfono completamente nudo, individua in un angolo sotto il banco di missaggio il posto ideale per riposarsi ed estraniarsi da tutto. Fa sistemare un letto nella cabina di regia dello studio e lo mette a disposizione del produttore Steve Lovell, vecchio amico di Liverpool ritrovato a Londra mentre suonava la chitarra nella stazione della metropolitana di Oxford Circus; e lo invita a diventare il suo Brian Wilson, mentre un ritratto dell’eccentrico e geniale leader dei Beach Boys campeggia su una parete come un “santino” a cui chiedere assistenza spirituale.

Julian Cope

Con il tormentato Wilson e con il disperso Syd Barrett, “fried ” quanto lui, Cope sembra avere non poco in comune: eppure la sua musica non sembra risentirne più di tanto, non è involuta né troppo ostica all’ascolto. Il 17enne chitarrista Donald Ross Skinner, concittadino di Tamworth; e la soave fiatista Kate St. John, altra vecchia conoscenza che poco dopo godrà di grande successo con i Dream Academy di Life In A Northern Town, confermano che a dispetto delle sue abitudini pericolose in studio Julian non divaga, sa quel che vuole, lavora velocemente e non dà problemi anche se lo spettro di Barrett aleggia ben visibile su alcune delle nuove composizioni con cui sembra volere riavvolgere il filo di certa psichedelia inglese. Intervistata dal mensile inglese Uncut, nel 2015 la St. John sottolineava le analogie tra i 2 personaggi e la presenza, nelle canzoni di Fried, di «qualcosa di molto inglese, come lo è del resto anche uno strumento come l’oboe. Penso che Julian fosse alla ricerca di sonorità poco ovvie. Che volesse esplorare una dimensione pastorale, ma che al tempo stesso sapesse creare un’atmosfera speciale e ipnotizzare come un incantatore di serpenti».

Suggestionato dalla natura e dagli antichi insediamenti che circondano la sua nuova abitazione, per la prima volta Cope sembra scoprire il significato rituale della musica e la sua dimensione ancestrale, approfondendo l’interesse per i culti pagani, per l’archeologia e per la storia antica del suo Paese, negli anni seguenti territorio di inesauribile ricerca (non solo, e anzi soprattutto in campo extramusicale). Così, l’iniziale Reynard The Fox prende il titolo da una celebre folk song e da un ciclo di favole allegoriche del 12° secolo anche se poi, dopo una introduzione in cui l’oboe fa la sua prima comparsa, sono le fiammeggianti chitarre elettriche in stile acid rock a marcare a fuoco un brano che, come l’autore è pronto ad ammettere, ruba il riff a un classico del garage anni 60 come I Can Only Give You Everything dei Them di Van MorrisonL’autore che compone il riff ne è il creatore originale, chi lo copia per primo è il truffatore, chi ne fa una terza versione diventa semplicemente un tradizionalista», è la sua teoria al riguardo).

Aspra e spigolosa, la chitarra di Ross si scatena nel finale in un parossistico rockabilly con tanto di slide; nell’onirico intermezzo parlato che lo precede, dopo essersi immedesimato nel terrore di una povera volpe in fuga dai cavalieri in rosso che le hanno barbaramente ucciso la famiglia, Cope rielabora nel suo flusso di coscienza un famigerato episodio autobiografico che lo aveva visto protagonista qualche mese prima sul palco dell’Hammersmith Palais di Londra: dove, in pieno trip e deciso a catturare l’attenzione di un pubblico sparuto e distratto, si era martoriato il ventre con la punta tagliente dell’asta spezzata del microfono.

Psychobilly anni 80 e folklore inglese sono gli ingredienti principali anche di Bloody Assizes, il 1° pezzo della seconda facciata in cui Julian rievoca la storia dei martiri di Tolpuddle: 6 braccianti agricoli del Dorset che nel 1834 vennero accusati di sedizione a danno dei loro proprietari terrieri e spediti in Australia a scontare la pena. Ma quella è solo una delle facce di un disco tridimensionale in cui il 27enne inglese percorre almeno altre 2 strade maestre, dimostrando innanzitutto di non avere disimparato a scrivere grandi canzoni pop. Divertente e scanzonata, Bill Drummond Said cita nel titolo e nel testo l’ex manager dei Teardrop Explodes (che gli risponderà 2 anni dopo con Julian Cope Is Dead) mentre la leggiadra e briosa Holy Love, forse la canzone d’amore più trasparente e diretta in repertorio, avrebbe potuto diventare un ottimo singolo. Resta un mistero, intanto, il motivo per cui non abbia sfondato nelle classifiche dell’epoca un pezzo irresistibile come Sunspots, cantato benissimo, dotato di una melodia fresca e orecchiabile, vivacizzato da una scansione ritmica scandita dalla batteria di Chris Whitten, ex Waterboys, e dalle chitarre elettriche di Ross Skinner e di Lovell, che vi aggiunge uno svolazzo di flauto dolce mentre all’oboe della St. John si affianca la tuba di David Carter e SteveBrother JohnnoJohnson (già nei Mighty Wah!) si ritaglia un breve assolo alla sei corde.

Tra i fraseggi pianistici martellanti di King Of Chaos, Cope disegna un altro inciso orecchiabile lanciando un’invocazione a Odino, divinità suprema della mitologia scandinava e germanica; ma sono poi soprattutto i pezzi più bucolici e semiacustici, di umore dolce e un po’ stordito, a conferire al disco quel suo sapore «tardo autunnale» , come lo definirà lo stesso autore. Che tra le liquide chitarre psichedeliche, l’oboe barocco e l’incedere pigro di Laughing Boy, un po’ innocente e un po’ inquietante, immagina di nuovo una Olde England popolata di re, regine e segretari di stato, mentre invoca aiuto e un posto dove andare; e in Me Singing sforna forse la più bella melodia del disco accompagnandola a un bell’intreccio di chitarre acustiche ed elettriche e a un testo ambiguo che sembra riflettere sulla duplicità dei rapporti amorosi, sui temi della presenza e dell’assenza, della comunione spirituale e della distanza. In Search Party sembra invece in preda a un sognante torpore, abbacinato dal sole mentre nella mente si affastellano riflessioni sulla vita familiare e sulla paternità, quieti quadretti di serenità domestica e immagini allarmanti di culle gettate dalla montagna. In Torpedo, infine, è un organo maestoso e quasi ecclesiastico a fare da cornice ad altre meditazioni a ruota libera sull’amore, mentre il protagonista siede solitario e si preoccupa di badare alla sua salute mentale.

L’artista inglese nel 2020

Tutte insieme, quelle canzoni dipingono un mondo “non urbano”, un po’ sognante e un po’ distopico; un microcosmo familiare che si è sostituito al macrocosmo del music business e in cui germoglieranno i semi della sua evoluzione umana e artistica. Diversamente da Syd Barrett, Julian non diventerà una vittima delle droghe: e anche se gli scarsi risultati commerciali di World Shut Your Mouth e di Fried gli costeranno il contratto con la Mercury, quei 2 dischi gli serviranno per dimostrare al mondo di «essere ancora un essere umano funzionante». Convinto, come T. S. Eliot che aveva letto da ragazzo, che il compito dell’artista consiste nell’ “educare, edificare e intrattenere”, nel suo caso senza rinunciare a un pizzico di autoironia (inevitabile, se te ne vai in giro nudo con un guscio gigante di tartaruga sulla schiena). Lì nasce il Julian Cope “arcidruido” che ancora oggi conosciamo: capace di scrivere divertenti e informatissimi saggi sul krautrock tedesco e sul rock psichedelico, di diventare un “moderno antiquario” autore di apprezzatissimi libri sui siti megalitici della Gran Bretagna e di pubblicare dischi “underground” che lui e soltanto lui potrebbe concepire e registrare (l’ultimo, England Expectorates, è in circolazione da qualche settimana). La sua lucida follia lo ha portato lontano.

Julian Cope, Fried (1984, Mercury)