I Sixties sono stati quel decennio irripetibile in cui ogni anno sembrava scandire un progresso, annunciare un nuovo passo avanti. Dischiudendo nuove prospettive e nuovi orizzonti, imprimendo profonde trasformazioni nello stile di vita, nella cultura, nell’arte, nel suono. Prendete una canzone come Shapes Of Things: Jeff Beck, di cui in questi giorni tutto l’ambiente musicale piange l’improvvisa scomparsa, l’aveva incisa nel 1966 con gli Yardbirds e poi ripresa nel 1968, piazzandola in apertura di Truth, l’Lp di debutto solista.

In quel breve lasso di tempo, dentro di lui e attorno a lui tutto era cambiato. E la musica rifletteva quella continua evoluzione: i feedback e la melodia orientaleggiante della prima versione, nel febbraio del 1966, avevano anticipato Sgt. Pepper e il boom della psichedelia; poco più di 2 anni dopo, nel luglio del 1968, tutto diventava ancora più estremo, sfocato, caotico e colorato: un turbine di effetti phasing e delay, una pedal steel mugolante e dolciastra, gli strumenti che rimbalzavano da una parte all’altra dello spettro sonoro sfruttando a fondo la tecnologia stereofonica, un finale balbettante e zoppicante, un sound più sporco e aggressivo («Conservammo il testo così come gli accordi discendenti e irregolari ma rendemmo il tutto un po’ più duro, togliendo al pezzo il suo ritmo di marcia per trasformarlo in un heavy funk», ricorderà in seguito il chitarrista). Era un azzardo, una scommessa, un suono avveniristico che ti risucchiava subito fra i solchi se avevi le orecchie pronte per ascoltarlo (l’album fu un discreto successo commerciale, ma soprattutto tanti, tantissimi musicisti contemporanei e successivi ne sarebbero rimasti contagiati).

Jeff Beck
(1944-2023)

Beck era cresciuto a dismisura e accanto a lui aveva gli uomini giusti. Alla batteria un battitore agile ed esperto come Micky Waller lasciato libero d’improvvisare e di muoversi a piacimento; al basso elettrico e alla voce solista 2 future star planetarie come Ronnie Wood (che il suo Fender Jazz Bass l’aveva fregato in un negozio del West End londinese: sarebbe tornato anni dopo a saldare il debito) e Rod Stewart, che con Waller si era fatto le ossa accanto a Cyril Davies e Long John Baldry, veterani del blues revival inglese. Erano un supergruppo in divenire, allestito dopo una serie di prove e di tentativi andati a vuoto: alle 4 corde, Beck aveva voluto inizialmente Jet Harris degli Shadows perché «aveva un aspetto figo», ma con lui le cose non avevano funzionato. Dietro i tamburi si erano seduti prima Ray Cook e poi Aynsley Dunbar; e Waller, alla fine, aveva prevalso perché «la sua batteria aveva un suono di gran classe anche se non aveva l’attitudine heavy metal che desideravo». Su Stewart invece nessun dubbio: più sexy e più soul, più roca e sfrontata di quella di Keith Relf degli Yardbirds, la sua era una voce inconfondibile e indimenticabile al 1° ascolto.

Quella Shape Of Things, che nelle note del disco lo stesso Beck invitava ad ascoltare a tutto volume, era una dichiarazione di intenti ma faceva anche di necessità virtù: per registrare Truth, in 2 veloci session tenute fra il 14 e il 15 maggio del 1968 e poi fra il 25 e il 26 maggio successivi, la band non aveva tempo a disposizione né autori in grado di scrivere nuovo materiale originale e di qualità. Per questo ne venne fuori un disco a 2 teste, incredibilmente eccitante ma anche schizofrenico e spiazzante: a un estremo, l’hard blues supersonico che anticipava i Led Zeppelin rivaleggiando con la potenza di fuoco dei Cream o della Jimi Hendrix Experience; all’altro, le cover pop verso cui spingeva il produttore Mickie Most, fabbricante di hit e specialista di un genere destinato ormai a rapida estinzione. In mezzo, 1 pezzo come Beck’s Bolero inciso e pubblicato nel 1966 come lato b del singolo Hi Ho Silver Lining, ma talmente avanti sui tempi che lì dentro ci stava benissimo.

Era come ascoltare al luna park Maurice Ravel e il flamenco in un labirinto di specchi deformanti, un vortice sonoro da cui esplodeva un riff killer. Lo aveva suonato un vero dream team con Beck alla solista, Jimmy Page (autore del pezzo) alla 12 corde elettrica, John Paul Jones al basso, Nicky Hopkins al pianoforte e alla batteria “You Know Whoalias Keith Moon, che lasciato temporaneamente il suo gruppo all’insaputa di Pete Townshend arrivava in studio in incognito nascosto da un paio di occhiali scuri, regalando alla band il suo stile travolgente ed esagitato («Durante quella session sfasciò diversi piatti e microfoni», racconterà Beck divertito).

Most, intanto, era riuscito almeno in parte a imporre la sua linea e le sue scelte, in sintonia con le prime produzioni di Beck solista e con quel singolo, Hi Ho Silver Lining, che Jeff considerava come un marchio di infamia, anzi «come un asse del cesso color rosa appeso al collo per il resto della vita». Nonostante ciò, in una pausa delle session, accettò d’incidere una delicata versione di Greensleves, celeberrimo standard folk, prendendo a prestito la Gibson J-200 acustica del produttore e lo stile di Chet Atkins. Disse sì anche a una rivisitazione di Ol’ Man River, il classico da musical anni 20 che piaceva tanto a Stewart, riarrangiato inventivamente con i caldi timbri delll’organo Hammond di Jones, i timpani tonanti di Moon e la voce sfavillante di un Rod già perfettamente a suo agio nei panni del crooner (mentre il leader imbracciava temporaneamente il basso).

C’entravano poco con il resto, quelle piacevoli divagazioni easy; e sottraevano un po’ di gravitas a 1 disco pionieristico e spartiacque. Molto più in linea con lo spirito dei tempi era la versione di Morning Dew, il classico antimilitarista e post atomico di Bonnie Dobson interpretato anche da Tim Rose e dai Grateful Dead che si apriva e chiudeva con una straniante cornamusa (un omaggio alle origini scozzesi di Stewart?) proiettandosi in un futuro confuso e distopico scandito da un ritmo sempre più incalzante, la voce di Rod che si dibatteva per restare a galla fra rullate e colpi di charleston, fughe pianistiche e onde impetuose di wah-wah. L’hard blues non era tutto, insomma, anche se era il cuore pulsante del disco, che Beck – con il suo uso inventivo e geniale degli effetti, dei pedali, delle scale – portava a un livello inaudito spalleggiato da una sezione ritmica vibrante e sempre in primo piano nel missaggio e da un vocalist eccitato, invasato, desideroso di mostrare tutto il suo valore.

Era proprio Stewart, con il nome di Jeffrey Rod, a firmare Let Me Love You: Buddy Guy rivisitato con un tamburello in stile Motown; e la lunga Blues Deluxe, esempi perfetti della musica che Beck, osteggiato da Most ma fiancheggiato dal tour manager Peter Grant (Yardbirds, e poi Led Zeppelin), aveva in testa: una musica «disgustosamente» heavy che ti dava l’impressione di essere circondato «da una colata di cemento» (nella seconda, intervallata da applausi fasulli che facevano pensare a una registrazione dal vivo, svettava il pianismo di Hopkins, isolato sul canale sinistro dello stereo e lanciato sulle orme di Otis Spann). Lo stesso approccio spiritato orientava gli altri blues dell’album: Rock My Plimsoul, una rielaborazione di Rock Me Baby di B.B. King riproposta in una versione diversa da quella (con Dunbar alla batteria) già pubblicata come lato b del singolo Tallyman; una fantastica Ain’t Superstitious che rubava esplicitamente il riff a Howlin’ Wolf e che Beck usava come pretesto per far imbizzarrire la sua selvatica 6 corde; e poi, naturalmente, You Shook Me, un altro originale di Willie Dixon che 6 mesi dopo sarebbe apparsa anche sul 1° album dei Led Zeppelin, in una versione più lunga, tenebrosa, stravolta, psichedelica e allucinata, ma in cui l’imprinting di Beck sembrava innegabile: Page sosterrà sempre di non averla copiata dichiarandosi inconsapevole del fatto che il vecchio amico e compagno di band l’avesse registrata poco prima (difficile pensarlo, considerando la presenza di John Paul Jones alla session nel ruolo di organista).

Jeff, a cui Grant fece ascoltare in anteprima 1 acetato dell’Lp, si sentì invece buggerato, scavalcato, frodato, pur consapevole del fatto che mettersi contro il Dirigibile sarebbe stato impossibile. Negli Zeppelin erano tutti per 1, pronti a fare quadrato contro il resto del mondo. Mentre loro, Beck & Co, erano un’accozzaglia di teste calde pronte a fare a pugni tra loro, con 1 bassista che in realtà era 1 chitarrista e sognava un futuro da rock star ; e 1 cantante dall’ego smisurato destinato lui pure a un futuro di gloria. Avrebbero resistito insieme ancora per un po’ (con Tony Newman al posto di Waller e Hopkins in pianta stabile) consegnando alle stampe Beck-Ola 1 anno dopo, ma presto avrebbero rotto le righe prendendo direzioni disparate. Sempre inquieto, sempre avanti, sempre lunatico e ingestibile, Jeff Beck era già oltre: fuori dallo star system e dentro la mitologia del rock.

Jeff Beck, Truth (1968, Epic/EMI-Columbia)