«Chris, dobbiamo cominciare a esercitarci». Sbalordito da quel che aveva visto fare quella sera, il 28 novembre del 1971, alla Mahavishnu Orchestra sul palco della State University of New York a Stony Brook (dove la band di John McLaughlin apriva, insieme agli Yes, per i Kinks dei fratelli Davies), Jon Anderson si rivolse con quelle parole al bassista Chris Squire, concordando con lui sul fatto che il loro gruppo doveva fare un altro balzo in avanti, dopo quello – già lunghissimo – compiuto con Fragile. Il jazz rock cosmico e spirituale della Mahavishnu, l’ascolto della Sinfonia n.5 di Jean Sibelius, la lettura del Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien e di Siddharta di Herman Hesse avrebbero condotto il cantante e il quintetto inglese alle esplorazioni sonore e alle meditazioni metafisiche di Close To The Edge, il disco definitivo degli Yes che, nell’anno di grazia 1972, scolpì le tavole della legge del progressive insieme a Foxtrot dei Genesis.
Ambiziosissimo, impegnativo all’ascolto, denso all’inverosimile eppure senza una nota di troppo e avvincente dall’inizio alla fine, Close To The Edge fotografava un irripetibile ed effimero stato di grazia. Anderson, Squire, Steve Howe alle chitarre, Rick Wakeman alle tastiere e Bill Bruford alla batteria erano una band di formidabili virtuosi, anche se il carattere più sanguigno degli ultimi 2 sembrava fare a pugni con l’ascetico stile di vita new age degli altri 3 e con il loro maniacale perfezionismo (con le sue infinite sovraincisioni, Squire in particolare continuava a sciogliere e riavvolgere la matassa esasperando i compagni). Spedito dalla rivista Melody Maker ad assistere alle session in corso agli Advision Studios di Londra, il giornalista Chris Welch toccò con mano le tensioni crescenti tra i 5 mentre la band, assecondata con pazienza e perizia dal fonico Eddy Offord, registrava una sequenza infinita di take incidendo «10, 12, 16 battute alla volta», come ricordò uno spazientito Bruford, un jazzista per natura molto più incline all’improvvisazione che alla progettazione minuziosa delle architetture sonore (sarà lui a definire la realizzazione del disco come «una scalata all’Everest»).
Steve Howe, Jon Anderson, Rick Wakeman, Bill Bruford, Chris Squire
«Di solito arrivavo e parcheggiavo davanti allo studio intorno alle 10 di mattina», ha ricordato Wakeman l’anno scorso al giornalista Sid Smith descrivendo la routine e le dinamiche delle session, protrattesi in 2 fasi tra il febbraio e il giugno del 1972. «Entrato in studio trovavo tutti intenti a prendersi un caffè e Steve era già in sede, dato che ci metteva un bel po’ di tempo ad accordare le sue chitarre e a prepararsi. Poi arrivavano Bill, pronto a sottolineare che non aveva senso essere lì in anticipo visto che Chris non era ancora nei paraggi, e Jon, che con me o Steve si chiudeva in una stanza a discutere di cosa avremmo fatto quel giorno. Finalmente, nel primo pomeriggio, anche Chris, appena rotolato fuori dal letto, si faceva vivo. Si metteva a suonicchiare il basso, e se eravamo fortunati per metà pomeriggio cominciavamo a fare qualcosa». Era il serafico Anderson a cercare di tenere tutti calmi e concentrati sull’obiettivo. Una musica mai sentita prima, già molto distante da Roundabout e dal formato canzone, dato che i 38 minuti scarsi del nuovo album sarebbero stati distribuiti fra una suite di 18 minuti e 43 secondi e altri 2 lunghi brani tra i 9 e i 10 minuti ciascuno.
Nessuno dei 3 somigliava a qualcosa che gli stessi Yes o qualche loro collega avesse fatto prima di allora: una strana creatura venuta dallo spazio o dalle viscere del pianeta in cui il rock, il jazz e la classica perdevano i loro connotati per fondersi e cambiare continuamente sembianze. Fu di Jon, ispirato dall’ascolto di un recentissimo disco di ambient elettronica pubblicato da Wendy Carlos (Sonic Seasonings) l’idea di quei suoni in loop e in crescendo, canti di uccelli e rumori acquatici, su cui avrebbe fatto violentemente irruzione un’introduzione strumentale nervosa, convulsa e aggrovigliata in stile Mahavishnu, interrotta solo da un paio di improvvisi e inattesi break vocali. Vi giganteggiavano Howe, con la sua Gibson 335 semiacustica di recente acquisizione, e Squire, con il suo basso elettrico Rickenbacker: 2 musicisti che spostavano i confini dei rispettivi strumenti, una chitarra dai fraseggi angolari e schizzati capace di disegnare anche momenti di serafico lirismo e un basso capace di diventare determinante anche nelle costruzioni melodiche e armoniche, mentre Wakeman contribuiva alla propulsione ritmica e Bruford spaziava da playmaker a tutto campo, confermandosi 1 dei batteristi più intuitivi e creativi tra quelli in circolazione nel rock dei 70s.
Poi, con la melodia suonata da Howe alla chitarra e l’ingresso della voce angelica di Anderson (i 2 autori del brano), Close To The Edge diventava una mistica sinfonia in 4 movimenti, 3 dei quali riprendevano, rielaboravano e trasfiguravano gli stessi motivi ritmici e melodici, introducendo ogni volta variazioni tra una strofa sincopata, un bridge più rilassato e un inciso aperto e solare, mentre le dita di Squire percorrevano scale inusuali e Howe aggiungeva ai timbri effettati della chitarra un sitar elettrico. Al di là della loro fluida musicalità, i testi di Anderson apparivano spesso criptici e incomprensibili, ma è stato lui stesso a darne in seguito una chiave interpretativa: «Mentre scrivevo Close To The Edge leggevo molti testi sulla spiritualità. Tutti i fiumi portano allo stesso oceano, esiste una connessione fra tutte le cose. Qualcuno pensa che Close To The Edge riguardi un’apocalisse, un disastro imminente. Invece riguarda la consapevolezza. Siamo in viaggio, e l’unico motivo per cui viviamo è trovare il divino. Scoprire Dio dentro di noi».
La musica della suite era la colonna sonora perfetta. Nei suoi momenti più intensi e frenetici come nell’oasi pacifica e meditativa di I Get Up, I Get Down (anch’essa ispirata al lavoro di Carlos), dove la voce di Anderson si incrocia e si sovrappone a una melodia parallela ideata da Howe e da lui cantata con Squire: confermando una qualità precipua e non sempre sottolineata della musica degli Yes, maestri dell’armonia vocale quasi quanto i Beach Boys, Crosby, Stills & Nash e gli Association (un altro gruppo amato da Jon) dall’altra parte dell’Atlantico. L’organo a canne registrato da Wakeman alla St.Giles without Cripplegate Church presso il Barbican di Londra (utilizzato anche in The Six Wives Of Henry VIII) introduce lo show del tastierista, che subito dopo si produce in un turbinoso assolo all’Hammond: è l’introduzione alla parte finale della suite, l’ascensione in cima alla collina da cui si contempla la valle sottostante, come nella suggestiva copertina creata da Roger Dean che nel gatefold interno riproduce un mondo incontaminato di verde, cascate, rocce e guglie mentre la voce in falsetto di Anderson si inerpica su vette che non potrà mai più raggiungere neppure nelle performance dal vivo.
Dopo tanta intensità, ci si sarebbe potuti aspettare una seconda facciata più easy e con qualche riempitivo (ricordate Tarkus di Emerson, Lake & Palmer?). Invece i 2 pezzi che la compongono diventeranno a loro volta cavalli di battaglia della band: aperta da Howe alla 12 corde acustica e suddivisa anch’essa in 4 movimenti, And You And I spazia dal folk a un rock quasi funk; da epici squarci melodici guidati dal synth e dal mellotron, ad altre complesse armonie vocali a incastro prima di riprendere il motivo iniziale in chiave country. L’invocazione alla fratellanza umana di Siberian Khatru (la parola in lingua yemenita ripresa nel titolo significa “come desideri”) si apre con il riff chitarristico più rock dell’album, suggerito da Bruford a Howe che qui fa esordire la sua lap steel mentre Wakeman si esibisce anche al clavicembalo. Ancora arrangiamenti complessi e stratificati, riff ripetuti e concentrici. Ancora, come dice Anderson, «storie e stati d’animo» che si dipanano osando nuove strade. Come ha osservato Wakeman, Close To The Edge documenta «l’ultimo momento in cui gli Yes furono un passo avanti alla tecnologia», immaginando cose che loro stessi non sapevano come raggiungere. Ci riuscirono (grazie anche a Offord), piantando una bandiera su un pianeta sconosciuto prima che la grande corsa allo spazio del prog arrivasse all’inevitabile fine.
Yes, Close To the Edge (1972, Atlantic)