L’abito non fa il monaco? Mica vero, se si parla di David Johansen: glam rocker punk con rossetto, tacchi alti e abiti femminili ai tempi dei New York Dolls, primi anni 70. Versione americana di Mick Jagger nella successiva fase da urban rocker e cantautore. Arruffato, invecchiato e poco attento al look nelle scorribande blues con gli Harry Smiths. Perfetta lounge lizard e frequentatore di nightclub nei panni di Buster Poindexter, l’alter ego creato nella seconda metà degli anni 80 quando voleva svincolarsi dal suo passato e «cantare pezzi che non sono necessariamente canzoni rock».

Partendo dal Tramps, un piccolo club sulla Quindicesima Strada, Buster diventò in quel periodo una piccola leggenda metropolitana allestendo spettacoli frizzanti, divertenti e umoristici che incarnavano la sua vera anima newyorkese. E il 1° album di Johansen con quel nome, uscito per la RCA nel luglio del 1987, ribadì che al di là dell’impianto teatrale e delle trovate da palcoscenico la stoffa musicale era robusta e di qualità pregiata. Prima ancora di mettere il vinile sul piatto, o il Cd nel lettore, sapevi che ti saresti divertito. Bastava la copertina, con la foto di Buster/David impomatato, in smoking con farfallino, in mano un Martini con oliva. Sul retro i Banshees Of Blue, lo squadrone di musicisti che lo accompagnava, era vestito anch’esso di tutto punto: al giro delle “bambole” newyorkesi appartenevano anche il batterista Tony Machine (un nome, una garanzia) e il chitarrista Brian Koonin; e accanto a loro c’erano Tony Garnier, il bassista storico di Dylan; una scattante sezione fiati, Uptown Horns, che si faceva vedere spesso in TV (con lo stesso David) al Saturday Night Live; la futura signora Springsteen Patti Scialfa ai cori, insieme all’altra E-Streeter e violinista Soozie Tyrell.

Al banco di regia sedeva invece Hank Medress, veterano di grande successo ai tempi dei Tokens (quelli di The Lion Sleeps Tonight), abile a guidarli tra un repertorio con i fiocchi e senza confini stilistici: jive, jump blues, swing, soul, musica caraibica e ballate, suonate da un’orchestra in abito da sera ma un po’ brilla come quel cantante dal vocione duttile, caldo e tonante, l’aria insolente di chi si sta divertendo alle tue spalle.

Buster Poindexter è il disco di Hot Hot Hot, l’hit single da classifica, il video ad alta rotazione su MTV, «la canzone che mi rovinerà l’esistenza», come disse all’epoca Johansen temendo di non potere più uscire dal suo personaggio: in 1 album rétro come quello, David usava come lasciapassare nel mercato maistream 1 pezzo contemporaneo, una soca (miscela di soul e calypso) 5 anni prima portata al successo dal suo autore, Arrow, prima star internazionale originaria di Montserrat, Indie Occidentali. La versione di Buster è adeguatamente spumeggiante, percussiva, latina e caciarona: in una sola parola, irresistibile, perché i fiati e le coriste ci danno dentro con gusto e lui ci mette quello humour beffardo da newyorkese navigato. Frizzanti umori latini, più avanti, pervadono anche Cannibal, pezzo firmato da Johansen  con Joe Delia, rodato blues rocker che aveva suonato anche con Chuck Berry e con Stevie Wonder: percussioni, chitarra acustica, fisarmonica (la suona lo stesso David), lo spirito di Willy DeVille, di Spanish Harlem e di Loisada dietro l’angolo.

Il versante fun, divertente e scacciapensieri dell’album, è ben presidiato anche da Screwy Music, Good Morning Judge e Whadaya Want?: la prima, del sassofonista swing Jimmie Lunceford, piena di trovate comiche e di strumenti a fiato scoppiettanti, Delia sciolto e vivace al pianoforte e Koonin al banjo; la seconda, dello shouter Wynonie Harris, con una intro e una outro parlate dal protagonista, sul banco degli imputati dopo essere stato beccato a scorrazzare per locali notturni con la figlia 15enne di un poliziotto; la terza, un piccolo standard degli hit maker di Elvis Presley, Jerry Leiber & Mike Stoller; un filante botta e risposta tra le voci di Patti e Soozie e quella di Buster ripresa dal repertorio anni 50 dei Robins, prima versione dei Coasters, in cui il cantante confessa di non ambire ad auto di lusso, caviale, aeroplani, motoscafi e case in Spagna, ma solo a “una piccola ragazza da amare”.

Un altro pezzo noto agli intenditori di musica âgé è Smack Dab In The Middle, firmato da Chuck Calhoun alias Jesse Stone e negli anni 70 entrato stabilmente anche nel repertorio di Ry Cooder: swing, blues, dinamismo, Koonin alla chitarra elettrica, i cori femminili, il sax tenore di Arno Hecht, il baritono e l’alto di Crispin Cioe in gran spolvero. Proprio come in Bad Boy dei Jive Bombers, un pezzo del 1957 che calza come un guanto a David, perfettamente a suo agio nei panni del mascalzone adorabile ed elegante (fra le tante riletture anche quelle di DeVille e di Ringo Starr). Non ha certo bisogno di presentazioni, invece, House Of The Rising Sun, il celeberrimo traditional che di nuovo lega Johansen a Eric Burdon e agli Animals dopo la medley interpretata 5 anni prima nel disco dal vivo Live It Up: la sua versione è meno nervosa, più disciplinata e solenne. Pop, nel senso classico del termine, e non rock.

Non può mancare il soul, in una rassegna old time come questa, ed è eccellente il duetto con una voce femminile in Are You Lonely For Me, Baby? di Bert Berns, N° 1 nelle classifiche r&b con Freddie Scott nel 1967 e subito diventato uno standard ripreso, tra gli altri, da Otis Redding con Carla Thomas. Ancora meglio la rilettura impeccabile di Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby), il successo blue-eyed soul della britannica Lulu registrato nel tempio della black music, Muscle Shoals, e poi rifatto da Aretha Franklin che David/Buster interpreta con pathos e stile da vero crooner assecondato da un bellissimo arrangiamento in cui spiccano le inusuali sonorità del sitar elettrico e il violino della Tyrell, quest’ultimo protagonista anche di Heart Of Gold: non la hit di Neil Young, ma forse il più bel pezzo solista di Johansen pubblicato nel 1981 nell’album Here Comes The Night. Una ripresa giustificata da una deliziosa reinvenzione in chiave country, che chiude nel migliore dei modi un luccicante e cromato juke box da notte newyorkese anni 80. Quando la Big Apple era una metropoli violenta, sporca, falcidiata dall’Aids, resistente al conservatorismo reaganiano ma anche terribilmente romantica, vitale e affascinante. Lì, nativi dalla pelle dura come Johansen/Poindexter affrontavano la realtà a viso aperto: fare baldoria tra fiumi di alcol e bella musica era il loro modo di esorcizzare il presente. E sentirsi vivi.

Buster Poindexter, Buster Poindexter (1987, RCA)