Era il 1972 quando i Big Star iniziarono a irradiare con un folgorante album di debutto i primi, intensi, bagliori. Ma a 52 anni di distanza, dopo avere brillato a intermittenza e per brevissimi periodi di tempo, restano, come piace dire ai giornalisti di lingua inglese, 1 dei segreti meglio custoditi della storia del rock. Ignoti al grande pubblico e per converso venerati da musicisti e appassionati che un po’ ovunque, Italia compresa, gli riservano oggi un culto devoto analogo a quello riconosciuto a Nick Drake, ai Can e a pochi altri.
Il loro destino beffardo, del resto, sembrò segnato fin dall’inizio, a dispetto di quel nome rubato all’insegna di una catena di supermercati che proprio davanti allo studio in cui registravano a Memphis aveva eretto 1 dei suoi punti vendita; e del titolo che avevano scelto per quel 1° Lp, #1 Record, quasi fosse predestinato a raggiungere la vetta delle classifiche. Poteva sembrare arroganza ma era solo un giochino autoironico, anche se le ambizioni iniziali non erano poca cosa dato il talento che la band poteva mettere in gioco. I 2 fuoriclasse erano i cantanti, autori e chitarristi Alex Chilton e Chris Bell, il John Lennon e il Paul McCartney di un quartetto di ragazzi troppo giovani per avere vissuto in diretta le glorie del concittadino Elvis Presley, ma come tantissimi coetanei folgorati dalla British Invasion e dalle apparizioni dei Beatles all’Ed Sullivan Show nel 1964.
Big Star
2 caratteri umorali e problematici, misteriosi e sfuggenti (e per questo intrinsecamente allergici alle regole del rock stardom). In certa misura anche antitetici: Alex più scorbutico e aggressivo, Chris più introverso e malinconico. A 16 anni l’enfant prodige Chilton, proveniente da una famiglia di artisti (il padre frequentava musicisti, la madre gestiva una piccola galleria d’arte) era diventato lo Steve Winwood americano sfondando con i Box Tops e con il blue-eyed soul di The Letter, salvo poi fare subito un passo indietro, scottato e disilluso da quell’istantaneo ed effimero successo. Ai tempi di #1 Record aveva 21 anni come Chris, di 2 settimane appena più giovane di lui, cresciuto in un sobborgo benestante di Memphis, Germantown, e già leader di un gruppo, gli Icewater, la cui ultima incarnazione – lui, Chilton, il bassista Andy Hummel e il batterista Jody Stephens – prefigurava quella della Grande Stella.
Come i Beatles di fine carriera, i Big Star erano dediti al lavoro in studio di registrazione e nutrivano poco interesse per i concerti; come John & Paul, Alex e Chris firmavano in coppia canzoni che in realtà componevano in genere da soli e che in buona parte erano nel loro repertorio ben prima che iniziassero le session per l’album di debutto. Erano pezzi memorabili, scintillanti e concise miniature power pop con melodie cantabili e chitarre squillanti, cascate cristalline di fluidi accordi acustici e riff elettrici abrasivi e stridenti usati per sostenere bellissimi intrecci vocali: sapevano di Fab Four, di Badfinger, di Kinks e di British Invasion, ma anche di Byrds e di sunshine pop californiano senza dimenticare il groove che si annidava nei solchi dei dischi Southern soul sfornati a ritmo industriale dalla concittadina Stax Records.
Come in tutte le migliori coppie della storia del rock, erano le divergenze artistiche e personali e le frizioni creative fra i 2 leader, a creare quella sana e percepibile tensione che rendeva la loro musica così intensa e vibrante, nervosa e vitale anche negli episodi apparentemente più quieti e rilassati. «Alex veniva in studio e fissava su nastro qualcosa di grezzo e tagliente; poi arrivava Chris e ci aggiungeva una seconda voce che ne addolciva il suono», ha ricordato anni fa Stephens a Rob Jovanovic, autore del libro Big Star: The Story Of Rock’s Forgotten Band, mentre lo stesso Chilton era pronto a riconoscere in Bell le qualità di un «brillante, istintivo creatore di contrappunto», ma anche a puntualizzare come «non volesse che noialtri ce ne restassimo a gironzolare a lungo in studio, convinto che quello fosse compito suo».
Era Chris, in effetti, il più interessato ad approfondire le tecniche e le tecnologie che consentivano di forgiare il sound, spalleggiato da un insostituibile e prezioso collaboratore come John Fry, cofondatore e fonico degli Ardent Studios, mago del suono e dei missaggi che in #1 Record era accreditato come produttore, pronto ad assecondare le richieste dei musicisti approfittando delle possibilità di sovraincisione consentite dal registratore a 24 tracce da poco installato nella sala. Per quel motivo, riconobbero i compagni, quell’album d’esordio (l’unico a cui Bell prese parte prima di andarsene, consapevole che Chilton gli aveva sottratto la leadership della band e tormentato dalla difficoltà di conciliare la sua omosessualità e lo stile di vita dissoluto da musicista rock con una profonda fede cristiana) aveva un suono più rifinito e più rotondo, meno aspro e meno spigoloso dei dischi successivi dei Big Star, anche se poi era proprio una sua composizione, l’iniziale Feel, a sfoggiare il suono più hard, più glam e più rumoroso, con strofe stridule che anticipano gli armoniosi cori del ritornello e un sound rinforzato da una tastiera (le note di copertina segnalavano la presenza nell’album del produttore e cantautore Terry Manning al piano elettrico) oltre che dalla tromba di Wayne Jackson e dal sax di Andrew Love (i Memphis Horns, non accreditati e in prestito dalla Stax).
Alle session che ebbero luogo fra il maggio del 1971 e il febbraio del 1972, Chris portò in dote altre canzoni da lui (e da Stephens) già registrate con un gruppo apparentemente chiamato Rock City: una ballata melodica ma vigorosa come My Life Is Right, che sul disco gettava un raggio di luce, di ottimismo e di speranza; e una Try Again degna di Gene Clark, caldo e avvolgente country-rock con una lap steel in gran spolvero. Con India Song, Hummel si riservava il momento più anomalo del disco, un breve intermezzo esotico e psych pop fra chitarre acustiche e flauto, ma per il resto era Chilton a prendere in mano le redini del gruppo. Gli altri Big Star conoscevano già le splendide e agrodolci melodie in chiave acustica della luminosa Watch The Sunrise, reminiscenza dei suoi trascorsi folk; e di Thirteen, che con tenerezza e pungente nostalgia ritraeva l’innocenza dei suoi 13 anni scanditi dalle giornate a scuola e dai weekend nelle sale da ballo, segnati dai primi palpiti sentimentali, accompagnati dalla musica di Paint It, Black dei Rolling Stones e “dal rock and roll che è qui per restarci ”.
Vennero scelte rispettivamente come lato B e A di un 1° e (manco a dirlo) sfortunato singolo, mentre al vecchio repertorio di Alex apparteneva anche un altro gioiello come The Ballad Of El Goodo, orgogliosa e agrodolce dichiarazione d’indipendenza compositivamente degna di un Robbie Robertson e cantata con una voce profondamente alterata rispetto ai tempi dei Box Tops e di cui il giornalista Bud Scoppa, grande conoscitore dei Byrds, sottolineava la somiglianza con quella di Roger McGuinn. Altri 2 singoli d’insuccesso mostravano tratti diversi del suo poliedrico profilo musicale, risplendente fra gli intarsi ritmici e l’assolo con wah wah di When My Baby’s Beside Me e il boogie rock abrasivo di Don’t Lie To Me. Era Bell a cantare da solista quest’ultima come la b side In The Street, acre ed elettrica, che Alex aveva composto prendendo a prestito per tramite del vecchio amico e folk singer Keith Sykes un vecchio riff del bluesman Blind Willie McTell, pennellando nel testo un perfetto quadro di noia a alienazione adolescenziale (“Bighellonando per strada/a fare le stesse cose che abbiamo fatto la settimana scorsa”) scossa dal brivido di qualche piccola trasgressione (una corsa in un’auto rubata forse ai genitori, uno spinello).
«I Big Star sembravano proprio parlare a gente come me», ha dichiarato anni dopo a Barney Hoskyns di Mojo a proposito di quella canzone Chris Stamey, cantante e chitarrista dei dB’S oltre che collaboratore di Chilton nei tardi anni 70. «Dove sono cresciuto, in North Carolina, tutto ruotava intorno agli Allman Brothers e a cose che non avevano nulla a che vedere con ciò che provavo io», aggiunse nel corso di quell’intervista mentre il suo compagno di band, Peter Holsapple, ricordò che «ci aggrappavamo a quei dischi dei Big Star come a oasi fatte di melodia, di canzoni brevi, di armonie concise e di produzioni interessanti». Pazienza se anni prima, a dispetto delle recensioni entusiaste dei critici e della stampa specializzata (Rolling Stone per mano di Scoppa, Cashbox e Billboard, secondo cui ogni brano del disco avrebbe potuto essere 1 singolo) l’Lp fece un buco nell’acqua, travolto e spinto alla deriva da correnti musicali che andavano in tutt’altre direzioni e da infauste scelte imprenditoriali (la decisione della Ardent di affidarne la distribuzione alla Stax, ormai sommersa dai debiti e priva di forza commerciale): decifrandone i solchi, ha ricordato Peter Buck dei R.E.M., in molti vi trovarono la loro stele di Rosetta.
Non solo la band di Athens e i newyorkesi dB’S, ma tanti altri a partire dai Poises, dalle Bangles e dai Replacements, che nel 1987 ad Alex Chilton intitolarono una canzone; mentre da questa parte dell’Atlantico ne restarono stregati gli scozzesi Primal Scream e Teenage Fanclub, che nel 1993 decisero d’intitolare Thirteen il loro 4° album. Si ripeteva, a qualche anno di distanza, ciò che era accaduto negli anni 60 con l’album di debutto dei Velvet Underground: anche #1 Record, al momento della pubblicazione, lo ascoltarono in pochi; molti di loro, però, ne presero ispirazione per imbracciare una chitarra elettrica e formare una rock and roll band che ne perpetuava il suono, lo spirito, la visione artistica, il modo d’intendere la musica e la vita.
Big Star, #1 Record (1972, Ardent/Stax)