Americano di Boston trapiantato a Londra, nella capitale britannica Joe Boyd ha prodotto il 1° singolo dei Pink Floyd, album storici di Nick Drake, dei Fairport Convention e in seguito anche i R.E.M. Eppure, quando gli chiedono con quali artisti si sia subito reso conto di avere creato qualcosa di speciale in sala d’incisione, non manca mai di citare per prima la Incredible String Band. «Per me erano come un’arma segreta», ha dichiarato recentemente alla rivista inglese Mojo, ricordando che ai tempi del loro 1° e omonimo album, nel 1966, «nessuno a Sud di Edimburgo ne aveva mai sentito parlare. Pensai che nell’ascoltarli la gente sarebbe andata fuori di testa».

Accadde soprattutto nel marzo di 2 anni dopo con la distribuzione nei negozi di The Hangman’s Beautiful Daughter, 3° album per l’etichetta statunitense Elektra che a Boyd aveva affidato la responsabilità della sua filiale inglese: uno sballatissimo ma irresistibile Lp che incarnava alla perfezione e alla lettera il concetto di acid folk anticipando di oltre un decennio quella che in seguito sarebbe stata chiamata world music; promosso in radio con incrollabile entusiasmo dal leggendario disc jockey della BBC John Peel e capace d’issarsi fino al N°5 delle classifiche di vendita britanniche dove stazionò per 21 settimane facendo di Robin Williamson e di Mike Heron, unici detentori del marchio dopo l’uscita di scena del banjoista Clive Palmer, delle improbabili star dell’underground dalle amicizie altolocate come l’alpinista Chris Bonington e la principessa Margaret. Con evidente imbarazzo da parte della famiglia reale, dato che si trattava di 2 hippies visibilmente “drogati ” e dediti a uno stile di vita decisamente alternativo.

Sul retrocopertina della stampa inglese del disco, promossa al rango di front cover nell’edizione americana, appariva una foto inequivocabile e che avrebbe fatto storia, scattata in un bosco il giorno di Natale del 1967: ritraeva una congrega pittoresca di uomini, donne e bambini (più il cane di Williamson, Leaf) addobbata in abiti colorati che facevano pensare a una versione aggiornata e psichedelica dei merry men di Robin Hood. Erano i membri di una comune che abitava in un cottage a Nord di Londra e che a Boyd lasciò una prima impressione indelebile: «Bimbi e droghe ovunque, gonne e camicette a fiori, mantelle di velluto, sciarpe di seta e scarpe infangate, il tutto intriso dall’odore del patchouli », come scrisse nel 2005 nella sua bellissima autobiografia White Bycicles. Profumi intensi ed esotici emanava anche la loro musica, «influenzata dal folk americano e dalle ballate scozzesi ma zeppa di aromi che arrivavano dai Balcani, dal ragtime, dal Nord Africa, dal music hall e da William Blake».

Viaggiatori e cittadini del mondo, Williamson ed Heron amavano strimpellare una miriade d’insoliti strumenti da loro stessi fabbricati, acquistati durante qualche viaggio extracontinentale o rintracciati nei retrobottega dei liutai e dei rigattieri di Edimburgo. Oltre alla chitarra acustica, all’armonica, al piano, al penny whistle, a percussioni assortite e al mandolino (compresa la sua variante mediorientale, l’oud ), Williamson suonava il gimbri (una sorta di liuto d’origini marocchine), il flauto di Pan, l’oboe indiano noto come shehnai, la jaw harp (il nostro scacciapensieri) e il waterphone; alla chitarra e all’organo Hammond, Heron aggiungeva il clavicembalo, il dulcimer martellato e il sitar, mentre a rendere ancora più corposi gli arrangiamenti provvedevano, quando necessario, il piano e l’organo a canne della musicista folk tradizionale Dolly Collins, l’arpa di David Snell nonché la vocetta stridula e i cimbalini a dita di “LicoriceMcKechnie, compagna inseparabile di Robin. Né lui né Mike erano dei virtuosi; e anzi era proprio la loro scarsa confidenza con certi strumenti a consentirgli di sfuggire alle gabbie delle accordature e delle sequenze di accordi standard spingendoli a esplorare un universo timbrico e armonico ignoto.

Il nuovo registratore 24 piste installato presso i Sound Techniques di Chelsea dal fonico John Wood, gli permetteva di realizzare finalmente la musica dei loro sogni, sovrapponendo e sovraincidendo tracce audio a piacimento. «Per me», spiegò Williamson molti anni dopo, «era come dipingere o disegnare con la possibilità di applicare, cambiare o scartare ogni colore sonoro». Bastò comunque una settimana, in quel dicembre del 1967, per fissare su nastro ciò che desiderava esprimere: «un folk posizionato alle frontiere dell’immaginazione», «una musica innocente che arrivasse direttamente dalla sorgente del cuore, saltando di stile in stile e di tema in tema seguendo la sola logica dei sogni e delle visioni, nel tentativo di ritrarre la meraviglia che provavamo di fronte all’inesplicabile consistenza della realtà».

Con quei suoni esclusivamente acustici e con quelle canzoni sghembe, originalissime e inafferrabili, la ISB dava voce a esseri umani, animali, creature mitologiche e organismi unicellulari; evocava mondi magici, mistici e misteriosi che paganamente celebravano la potenza e la bellezza dei 4 elementi naturali oltre alla forza dell’amore e della comunione spirituale, sondando l’invisibile e l’aldilà (la figlia del boia, spiegò Heron in un’intervista, era una metafora di ciò che accadeva dopo la morte). Lo faceva con un approccio libertario, che si nutriva anche degli scritti di Jean-Paul Sartre e dalla poesia beat di Jack Kerouac; di stati di coscienza alterati e di visioni oniriche. Le 4 sezioni del brano d’apertura, Koeeaddi There, complete di testo e melodia, presero forma nella mente di Williamson durante un sogno.

Appena sveglio, Robin si affrettò a trascriverle affidandosi al caso anche per il titolo della canzone, composto tirando i dadi dopo avere assegnato 1 numero a ciascuna lettera dell’alfabeto. Si capiva subito, da quella sgangherata e seducente rêverie, che nella musica dell’Incredible String Band intonazione, tempo, ritmo e battute rappresentavano variabili imprevedibili affidate all’intuizione del momento mentre folk, country, gospel, musica classica, canto gregoriano, India e Medio Oriente s’incontravano in un universo ignoto e parallelo scardinato dalle sue coordinate geografiche e culturali.

The Incredible String Band

Era lui, Williamson, il compositore principale dato che ben 7 brani su 10 portavano la sua firma, fra il music hall parodistico di The Minotaur’s Song in cui la mitologia classica incontrava il cabaret e il teatro dell’assurdo (ai cori, non accreditati, ci sarebbero Richard Thompson e Judy Dyble dei Fairport Convention); l’esoterismo e il Medio Evo psichedelico di Witches Hat; un valzer sbilenco (Waltz Of The New Moon) che nelle modulazioni del canto sembra quasi anticipare l’uso moderno dell’autotune e una The Water Song che fra zampilli e giochi d’acqua evocava rituali antichissimi mentre la più lunga (quasi 8 minuti) e incalzante Three Is A Green Crown metteva in scena un’altra enigmatica liturgia pagana; e nell’ode di Nightfall il bardo scozzese invocava il calare delle tenebre e del sonno per mondarsi dai pensieri e dalle preoccupazioni del giorno.

Il suo alter ego gli rispondeva con 3 composizioni; e si percepiva che fra lui e il partner – ora che fra loro non c’era più Palmer a fare da tramite, paciere e mediatore – sussisteva una tensione creativa e competitiva che presto avrebbe prodotto 2 fronti antagonisti all’interno del gruppo (Williamson fiancheggiato dalla volitiva Licorice, Heron sostenuto dalla compagna Rose Simpson di lì a poco anche lei assunta in pianta stabile come bassista). Il labile punto d’incontro, come acutamente annotava Boyd nel suo libro, era rappresentato dai loro affascinanti intrecci vocali: “La combinazione della vocalità a tinte dylaniane di Mike e dei lamentosi glissando generati da Robin, creava armonie tanto esotiche quanto potenzialmente commerciali ”.

Le si ascolta in Mercy I Cry City, ballata dall’atmosfera giocosa e quasi infantile in cui accanto al flauto e alle percussioni svetta un’armonica decisamente country; e in Swift As The Wind, lamento dalla melodia “storta ” e deragliante. Ma è soprattutto nel suo pièce de résistance da 13 minuti, A Very Cellular Song, che Heron ruba la scena mettendo in musica un resoconto piuttosto fedele di un trip d’acido di cui era stato protagonista con chiacchiericci a ruota libera e i programmi di Radio 4 sullo sfondo: è una stramba suite i cui movimenti sono collegati dal fraseggio del suo clavicembalo oltre che dai passaggi strumentali eseguiti da Williamson al gimbri e alla Jew’s harp; un allucinato inno all’amore, alla luce e alla struttura cellulare dell’universo che ne celebra anche le particelle più minuscole ed elementari (anche le amebe, qui, hanno voce in capitolo) incorporando sezioni classicheggianti, sequenze atonali e una ripresa dello spiritual bahamense And We Bid You Goodnight, che Mike aveva sentito intonare dalla Pinder Family.

Molti fan del rock hanno imparato a conoscerlo grazie ai Grateful Dead, mentre Robert Plant la scoprì proprio fra i solchi di The Hangman’s Beautiful Daughter da cui rimase abbagliato quanto Paul McCartney e Bob Dylan. Il cantante dei Led Zeppelin diventò amico e fan sfegatato della band prendendone esplicitamente spunto insieme a Jimmy Page per le pagine più folkeggianti del suo gruppo e ispirandosi a Williamson anche per la particolarissima tecnica vocale («L’ho sempre vista come una sorta di combinazione dei modi di cantare caratteristici dell’Europa centrale del 14° secolo, con quei quarti di tono tipici della scala medievale»). «Avremmo sempre voluto terminare uno show degli Zeppelin con un frammento di A Very Cellular Song», ha più volte ricordato Plant, «solo che Bonham, Dio lo benedica, ci mandava regolarmente affanculo».

Oggi però ha potuto riavvolgere il filo, dato che proprio con And We Bid You Goodnight è solito chiudere i concerti dei Saving Grace che presto rivedremo in Italia. Un indizio importante del fatto che, 56 anni dopo la sua uscita, la musica anarchica, allucinata e fantasiosa di The Hangman’s Beautiful Daughter è ancora impressa nella mente di artisti di levatura mondiale e continua a riverberare la sua strana e magica aura sulla musica del 21° secolo. Il suo segreto, il suo incanto, il suo sapore autentico e immortale, forse, sono racchiusi nella descrizione che ne diede Heron: «Noi la musica non la suoniamo. La viviamo».

The Incredible String Band, The Hangman’s Beautiful Daughter (1968, Elektra)