Erano appena sbocciati gli anni 70, quando attraverso pellicole come Soldier Blue (Soldato blu) di Ralph Nelson e Little Big Man (Il piccolo grande uomo) di Arthur Penn la nuova Hollywood cominciò finalmente a riscrivere la Storia del Nord America dal punto di vista dei vinti: i nativi sopraffatti dall’invasore, spesso bollati con epiteti imprecisi e dispregiativi come “indiani ” o “pellerossa ”. Il tema conduttore della colonna sonora del discusso film di Nelson interpretato da Peter Strauss e Candice Bergen, venne affidato a Buffy Sainte-Marie. Si trattò di una scelta quasi scontata, dato che a dispetto dei clamorosi risultati di una recente inchiesta televisiva che ha negato le sue presunte origini Cree e canadesi sostenendone ascendenze puramente “bianche ” (inglesi per parte di madre, italiane per parte di padre, il cui vero cognome era Santamaria) era indiscutibilmente lei, in quegli anni, la portavoce ufficiale della comunità nativo americana nel mondo della popular music e della cultura di massa.

Lo era fin dall’aprile del 1964, quando un’etichetta simbolo del folk americano, la Vanguard Records, aveva pubblicato It’s My Way!, il suo album di debutto esplicito e inequivocabile fin dalla copertina che ritraeva la musicista, allora 23enne e dai tratti somatici decisamente nativi, con in mano uno strumento tradizionale delle tribù nordamericane come l’archetto a bocca, strillando un titolo punteggiato da un esclamativo che rivendicava la sua indipendenza di pensiero e uno spirito decisamente battagliero. Nei solchi 13 canzoni, alcune delle quali facenti parte del suo repertorio fin dagli anni del college, arrangiate semplicemente per voce e chitarra acustica (spesso suonata con accordature inconsuete che avrebbero fatto scuola), in sintonìa con gli umori e l’humus culturale della nuova canzone d’autore e di protesta che in quel periodo emergeva dal Greenwich Village newyorkese, ma decisamente originali nei testi e nelle melodie: miniature pungenti e palpitanti che spalancavano davanti agli occhi e alle orecchie del mondo dure e scomode realtà che il governo e l’establishment preferivano tenere nascoste sotto il tappeto.

Buffy Sainte-Marie

Erano i mesi in cui sulle sponde dell’Allegheny River nella Warren County, in Pennsylvania, si lavorava alla costruzione di una delle più grandi dighe a Est del Mississippi, la Kinzua Dam, espropriando le minoranze delle First Nations di un’altra delle piccole porzioni di terra riconosciutegli dalle leggi federali. Territori da cui erano destinati a sparire per sempre i bisonti e le fonti di sostentamento delle comunità: per questo Buffy scrisse di getto Now That The Buffalo’s Gone, dedicandola all’amico e collega attivista pro nativi Peter La Farge e cantandola con quella sua voce squillante contraddistinta da un possente vibrato accompagnata dal contrabbasso del grande jazzista Art Davis, abituato a interagire con colossi quali Count Basie, Art Blakey, John Coltrane e Dizzy Gillespie.

Era, come scrisse nelle lucide e accurate note originali dell’Lp il cofondatore della Vanguard, Maynard Solomon, “ l’ironico lamento di una Cassandra indiana ” rivolto ai “pii filantropi umanitari che compiangono la ferocia del modo in cui in passato abbiamo trattato gli Indiani mentre umilmente e ‘impotenti’ danno il loro assenso all’attuale e continuo furto delle loro terre ”. Era un dito affondato nella piaga (“persino quando la Germania è caduta nelle vostre mani/gli avete lasciato l’orgoglio e le terre ”), un coltello che penetrava in una ferita aperta; 1 di quei brani che meglio del servizio di un telegiornale raccontava che cosa stesse succedendo lì intorno.

Accadeva lo stesso nei 2 pezzi più famosi dell’album, dove Sainte-Marie alzava il suo sguardo sdegnato e accigliato oltre i confini delle riserve. Brutale, cruda, drammatica e reinterpretata da innumerevoli colleghi (memorabile la bruciante versione elettrica e psichedelica dei Quicksilver Messenger Service), Cod’ine era una delle primissime canzoni “pop” a riflettere su una nuova e terribile piaga sociale: le morti provocate dal consumo di droghe pesanti. Una danza macabra che raccontava spietatamente e in dettaglio i sintomi, le crisi d’astinenza e la condizione miserabile dei tossici prendendo spunto da esperienze autobiografiche (la dipendenza dalla codeina che Buffy stessa aveva contratto dopo averla assunta per combattere una grave infezione ai bronchi); una parabola moraleggiante che invitava a tenersi alla larga da quel malefico farmaco, anche quando “lo stomaco lo invoca e la testa trema ”. Resa celebre l’anno dopo da Donovan e da Glen Campbell, Universal Soldier puntava invece il dito contro le milizie mercenarie che combattono sui fronti opposti nelle guerre di tutto il mondo, a sostegno della “Democrazia ” o a fianco dei “Rossi ”, i “soldati universali ” che decidono a chi tocca vivere e a chi tocca morire, senza i quali Adolf Hitler non avrebbe potuto compiere i suoi eccidi e Giulio Cesare avrebbe dovuto rinunciare ai suoi piani d’espansione: gli americani e il resto del mondo la ascoltarono nei mesi in cui, con la risoluzione del Golfo del Tonchino, il presidente Lyndon Johnson otteneva dal Congresso un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam.

La musica di Buffy Sainte-Marie era tutta così. Stava sempre in trincea sul fronte più avanzato. Sulla cresta dell’onda, nell’occhio del ciclone. Prendeva posizione e denunciava, mostrando empatìa per le vittime dei giochi di potere e per chi non aveva megafoni a disposizione. Con uno sguardo intenso e penetrante, attingendo al folk del Greenwich Village, alla poesia e al lirismo amaro della grande chanson française e ovviamente alle tradizioni della sua terra, in brani come The Old Man’s Lament, variazione sul tema del traditional Streets Of Laredo in cui la voce raggiungeva timbri quasi mascolini rivelando una dinamica sorprendente; Ananias, che prendeva ispirazione da 3 diversi personaggi del Nuovo Testamento e in cui Buffy sfoderava un lacerante acuto finale; Mayo Sto Hoon, cantata nel 1960 dall’indiano Mohammed Rafi nella colonna sonora di un film di Bollywood e da lei stessa cantata in lingua Hindi con la “desolata tenerezza e l’acredine di una canzone di Prévert ” (ancora Solomon); e Cripple Creek, l’unica “party song ” allegra e ritmata, un folk appalachiano da ballare mentre la mouth box di Sainte-Marie produceva un suono grezzo simile a quello di un violino a una sola corda.

Con You’re Gonna Need Somebody On Your Bond, Buffy riprendeva un Negro gospel blues di Blind Willie Johnson, scomparso quasi 20 anni prima, mentre il resto del materiale era tutto a sua firma: He Lives Alone In Town (con una seconda chitarra suonata dal suo ex maestro, il cantautore nativo Patrick Sky) e la più tesa Babe In Arms (che dipingeva la desolazione di una giovane madre abbandonata dal marito) erano cupi quadretti d’isolamento esistenziale mentre la lugubre e inequivocabile ballad The Incest Song rappresentava il drammatico climax emotivo dell’Lp narrando una storia tragicamente antica e moderna, di privilegiati coperti dall’immunità e di vittime sacrificali. Dopo l’incanto ipnotico, ancestrale, mistico e sensuale di Eyes Of Amber era la canzone che intitolava il disco, It’s My Way!, a chiudere il cerchio: Buffy vi rivendicava orgogliosamente il suo percorso e le sue conquiste prima d’invitare chi la ascoltava a non imitarla e a trovare la propria strada (“mettete da parte la storia di tutto ciò di cui sono venuta a conoscenza/siete destinati, un giorno, a raggiungere la gloria per conto vostro ”).

Era un messaggio di speranza e d’incitamento destinato a chi combatteva per i diritti civili, contro le discriminazioni e contro le guerre; e a chi qualche anno dopo avrebbe inseguito il sogno di uno stile di vita alternativo, se non antagonista. All’umanità intera e ovviamente alla Nazione Indiana, che finalmente trovava voce e rialzava la testa. Buffy Sainte-Marie avrebbe fatto molto altro ancora fra intuizioni visionarie (la quadrifonìa sperimentale, la proto elettronica e i trattamenti sintetici della voce di Iluminations, 1969), collaborazioni con il gotha del rock americano (Ry Cooder, Neil Young e i Crazy Horse in She Used To Wanna Be A Ballerina, 1971) e grandi successi commerciali (Up Where We Belong nel 1982, scritta con Will Jennings e con l’allora marito Jack Nitzsche, inclusa nella colonna sonora di Ufficiale e gentiluomo e trasformata in una mega hit da Joe Cocker e Jennifer Warnes).

Ma quel 1° album resta il suo sensazionale debutto sulla scena, il suo fiero atto di denuncia e il suo appassionato omaggio a una cultura che, sappiamo adesso, le apparterrebbe per intricate vicende personali (l’adozione da parte di una famiglia residente nella riserva Piapot 75, nel Saskatchewan canadese) e non per vincoli di sangue. Che sia un’opera autentica o un falso d’autore, alla luce delle recenti scoperte che hanno sollevato accesi dibattiti all’interno della comunità nativa, può modificarne la percezione contemporanea ma non il valore musicale o l’impatto storico che ebbe 60 anni fa.

Buffy Sainte-Marie, It’s My Way! (1964, Vanguard)