“È scoppiata la Freemania! ”, scriveva nel luglio del 1970 il giornalista Chris Charlesworth sul settimanale musicale inglese Melody Maker mentre il 3° album dei Free, Fire And Water, si issava al N°2 delle classifiche di vendita britanniche e la band inglese viveva il suo momento di celebrità planetaria, ingaggiata seduta stante come headliner al Festival dell’Isola di Wight dove, il mese dopo, sarebbe stata data in pasto a una folla di 600.000 persone.
Una vampata di gloria e uno shock emotivo per 4 giovanissimi – il cantante Paul Rodgers e il batterista Simon Kirke avevano 20 anni, il chitarrista Paul Kossoff 19 e il bassista Andy Fraser appena 17 – che con i primi 2 album, Tons Of Sobs e Free, non erano andati oltre le 20.000 copie vendute. Stavolta, però, gli era scoppiata in mano una bomba: All Right Now, un pezzo dall’incipit riconoscibile quasi come quelli di Whole Lotta Love e Smoke On The Water che arrivò anch’esso al N°2 in Inghilterra, al 4° negli Usa, in vetta alle charts in Danimarca e in Svezia e nella Top 5 un po’ ovunque (Canada, Francia, Germania, Irlanda, Svizzera, ma non in Italia dove non andò oltre la 56ma posizione). A Rodgers un disc jockey di Los Angeles, Joe Benson, ha raccontato una volta che ancora oggi, nel mondo, almeno una radio la trasmette ogni 45 secondi; intanto i tifosi di una squadra di football americano ne hanno fatto il loro inno ufficioso e le agenzie pubblicitarie la ripescano periodicamente per sonorizzare qualche campagna radiotelevisiva.
Paul Rodgers, vocalist dei Free
Come spesso accade con le grandi hit (e anche se le versioni dei 2 coautori, Rodgers e Fraser, non collimano) nacque quasi per caso e in non più di 15 minuti in un camerino: un po’ per frustrazione, un po’ per calcolo e per desiderio di rivalsa, dopo un disastroso concerto tenuto per l’unione studentesca di Durham davanti a qualche decina di spettatori imbambolati e in preda agli effetti del Mandrax. Il testo, che il vocalist avrebbe scritto di getto il giorno dopo mentre aspettava che i compagni passassero a prenderlo per recarsi in un altro locale in cui era in programma una loro esibizione, era elementare e di stampo adolescenziale (un ragazzo aggancia una ragazza per strada e la invita a casa sua per un incontro romantico “prima che alzino le tariffe del parcheggio ”, rassicurandola sulle sue buone intenzioni); il riff, ideato da Fraser, un’esplicita imitazione di quelli scritti da Pete Townshend («Il re degli accordi, il migliore di sempre»), il ritornello di «semplicità universale» (come lo definì Rodgers) e per questo destinato a fare immediatamente presa sul pubblico (la prima volta che i Free lo proposero dal vivo venne richiesta a gran voce come bis).
Registrata in una dozzina di takes negli studi della Island Records di Basing Street, a Londra, aveva il feeling di certe classiche incisioni blues e soul («Era quella la scintilla che volevo mettere nella canzone», confermò il frontman) e un assolo di chitarra «sublime e tra i più belli di sempre» secondo Kirke, che insieme a Fraser, nella parte finale del pezzo, manovrava con le mani i pedali di un organo Hammond. La versione più bella, e la preferita dal gruppo, è quella che chiude l’album e che dura oltre 5 minuti e ½: quella che finì nelle playlist di tutte le radio e nei jukebox di tutti i pub britannici era però stata tagliata di circa 1 minuto e ½ su insistenza di Chris Blackwell, il boss della Island, convinto che fosse un successo annunciato, ma che solo così anche la BBC si sarebbe convinta a trasmetterla. Aveva ragione, ma dovette sudare per avere l’assenso del gruppo: i Free, che diamine, non si chiamavano così per caso ma perché se ne fregavano delle etichette e delle regole del music business; avevano un pubblico devoto e principalmente di sesso maschile, che avrebbe storto la bocca nel vederli eseguire il pezzo in semi playback (voce live, base preregistrata), goffi e imbarazzati, durante un programma televisivo per ragazzine come Top Of The Pops.
La diedero vinta al loro illuminato discografico, quella volta, dopo aver respinto al mittente, anni prima, il suggerimento di farsi chiamare Heavy Metal Kids. Un nome che c’entrava davvero poco con loro, innamorati di Otis Redding, Aretha Franklin e Gladys Knight; di Albert King, di B.B. King e di Jimi Hendrix. Convinti discepoli della dottrina “less is more “: principio secondo cui ciò che non si suona è altrettanto importante di ciò che viene suonato. Votati all’essenziale e allergici alla grandeur, nonostante la presenza in formazione di 2 fuoriclasse: «Un cantante soul che cantava il rock and roll» (secondo una felice definizione, gradita all’interessato, forgiata da Ken Sharp di Guitar Magazine), rude e sincero, genuino e senza fronzoli che in passato aveva anche suonato il basso; e un chitarrista, Kossoff (figlio di un noto attore di origini ebreo-russe), dotato di gusto, tecnica e inventiva straordinarie ma lontanissimo dall’idea del fiammeggiante guitar hero alla Jimmy Page, alla Jeff Beck o alla Ritchie Blackmore; timido e sempre pronto, semmai, a fare un passo indietro. Con lui Kirke aveva suonato nella blues band Black Cat Bones, accompagnando in giro per il Regno Unito il leggendario pianista di New Orleans, Champion Jack Dupree; mentre il colored Fraser, d’origini scozzesi e guyanési per parte di padre, pur giovanissimo aveva già una certa esperienza essendosi formato alla scuola dei John Mayall’s Bluesbreakers. Tra loro i 4 facevano squadra, attenti a non sovrastarsi e a non prevaricare senza alcuno spirito competitivo, perché l’importante era creare spazio per intavolare un fluido dialogo musicale.
Le loro canzoni evitavano volontariamente i fuochi d’artificio di tanti loro contemporanei; piuttosto che esplodere, trattenevano una tensione latente giocando sulla dinamica e sui timbri, più ancora che sui volumi: la voce di Rodgers concentrata sulla pura espressione emotiva più che sul virtuosismo; Kossoff intento a far muovere le sue Gibson Les Paul Sunburst «su lente onde, che prima si alzano e poi ridiscendono», collegando lo strumento a una catasta di amplificatori Marshall. Vedendoli sulla copertina di Fire And Water, pensosi e forse anche un po’ scazzati, intuisci di che pasta è fatta la loro musica: malinconica e rabbiosa, bluesy e ricca d’anima, viscerale ma mai strabordante. Dice bene, chi li ricorda come maestri del groove con un gran senso del ritmo (anche nelle parti di chitarra) e artisti del riff: non solo quello paradigmatico di All Right Now ma anche quello, lento e ipnotico, di Mr. Big, la voce rauca e ringhiosa di Rodgers che invita un non meglio identificato “pezzo grosso ” a stargli alla larga se vuole evitare guai mentre nella parte finale Fraser si rende protagonista di un famoso e memorabile assolo in cui il suo basso elettrico scivola, salta e rimbalza fra i tasti del manico.
È l’unico pezzo, nei 35 minuti del disco, in cui i Free sciolgono davvero gli ormeggi lanciandosi in una jam; e diventerà un altro classico, fornendo il nome a un celebre supergruppo hard rock statunitense e lo spunto per successive reinterpretazioni ad artisti diversi come i Gov’t Mule e Carmen Consoli. Lì, e nel resto del disco, la chitarra di Kossoff preferisce gemere che urlare, muovendosi con leggerezza e agilità. Solo nella title track Fire And Water, che Wilson Pickett tramuterà in seguito in un 45 giri di successo dell’Atlantic dopo averla registrata a Muscle Shoals, indugia per una decina abbondante di secondi su una nota fissa prima di librarsi in 1 dei suoi concisi e pungenti assoli, cui segue una coda di drumming solitario: è il pezzo più hard e tenebroso del disco, in contrasto con il più leggero midtempo rock and roll di Remember in cui Kossoff sceglie un timbro più morbido e vellutato. Ci sono anima e grinta, dolcezza e rimpianto nella soul ballad Don’t Say You Love Me e in Oh I Wept, con le 6 corde sovraincise che aggiungono una punta di acida psichedelìa a un torpido e affascinante lamento rock blues in cui Rodgers si cala senza fatica nei panni di un uomo che, a bordo di un treno, è pronto a lasciarsi alle spalle il suo passato, lacrime e dolore. Nel suo understatement è una canzone magnifica quanto Heavy Load, un altro slow in cui Fraser suona il pianoforte e il vocalist partorisce forse la sua performance vocale più sofferta ed emozionante, cantando di un’altra fuga da casa per liberarsi del peso troppo grande che si porta sulle spalle.
Sono anche questi pezzi, purtroppo schiacciati dall’immensa popolarità di All Right Now, a fare di Fire And Water l’opera più compiuta di un gruppo imploso troppo presto, dopo soli 5 anni, 6 album e qualche altra canzone di successo (My Brother Jake, Wishing Well). Troppo ancorato, forse, a una visione pura, classica e vecchio stile del rock nel momento in cui il genere si votava alla magniloquenza e alla spettacolarizzazione estrema; e schiacciato da un dilemma esistenziale, come Rodgers ha più volte ricordato: «Eravamo sempre stati una band rock/blues, ma a un certo punto nella direzione che avevamo preso si manifestò una spaccatura: dovevamo decidere se essere autentici o esplicitamente commerciali». Scelsero la coerenza, prima che lui stesso (insieme a Kirke) si risintonizzasse con lo spirito del tempo fondando i Bad Company assieme a Mick Ralphs (Mott The Hoople) e Boz Burrell (King Crimson) e confermandosi 1 dei più grandi vocalist della sua generazione. Sempre e comunque orfano dell’amato soul brother Kossoff, anima fragile e vulnerabile mai ripresasi dalla morte del suo idolo Jimi Hendrix, piegata da anni di eccessi e di droghe pesanti e dall’incapacità di venire a patti con un mondo troppo spietato per la sua esacerbata sensibilità. Un altro dei tanti angeli caduti del rock and roll, eroe della chitarra apprezzato da Eric Clapton, Peter Green, Brian May e idolatrato da Joe Bonamassa la cui breve e tormentata parabola esistenziale il giornalista inglese Mark Blake ha paragonato a una tragedia shakespeariana.
Free, Fire And Water (1970, Island)