In mezzo a tante morti eccellenti, è passata purtroppo quasi inosservata la scomparsa a soli 67 anni, il 13 marzo scorso, di Simon Booth alias Simon Emmerson, eminenza grigia degli Afro Celt Sound System e degli Imagined Village ma prima ancora dei Weekend e dei Working Week, 2 band che anche nel nome sembravano essere una la conseguenza logica e temporale dell’altra. Nell’ambito del new cool britannico degli anni 80, questi ultimi sono forse stati i più cool di tutti.
Baciati da un successo di nicchia – soprattutto in Germania, Europa Centrale e Italia, con buone vendite e acclamate partecipazioni a festival prestigiosi come Montreux e Umbria Jazz – ma molto meno famosi di Sade, dei Simply Red, degli Style Council o anche degli Everything But The Girl, forse perché erano un passo oltre: più vicini al jazz e alla scena dei dance club londinesi, sempre in prima linea nelle battaglie politiche della sinistra radicale, in sintonia con le musiche e le istanze dei popoli latino americani.
Simon suonava una Gibson ES-335, la chitarra jazz e semiacustica dei suoi sogni che gli aveva regalato il produttore Robin Millar. La usava spesso con discrezione, gusto e tocco gentile ma senza dimenticare, quand’era il caso, le ruvidezze punk e new wave delle sue origini musicali. Con Larry Stabbins, il sassofonista e flautista di 7 anni più vecchio di lui che aveva suonato con Keith Tippett e altri luminari del Brit jazz, aveva cominciato a collaborare ai tempi dei Weekend gettando i semi del percorso futuro: quando una sera finirono al Camden Palace Electric Ballroom di Londra, dove il dj Paul Murphy metteva sul piatto la loro The View From Her Room facendo scatenare in pista un gruppo di giovani ballerini per lo più di pelle nera, ebbero una folgorazione.
Quella era la strada su cui insistere. Nacquero i Working Week, e partirono con un sound ancora più rivoluzionario ed estremo: ispirata allo stile modern jazz di Chico Freeman, Stella Marina (poi aggiunta come bonus in formato 12 pollici alla prima stampa dell’album di debutto Working Nights) mischiava ritmi elettronici ossessivi a furibonde percussioni afrocubane, i fiati free ai vocalizzi di Julie Driscoll Tippetts e al rap metropolitano e politico di Jalal dei leggendari Last Poets newyorkesi: «Fu probabilmente il primo pezzo acid jazz in assoluto», come ha ricordato lo stesso Stabbins. 11 minuti di musica che dal vivo potevano estendersi a un intero set mentre nei club come l’Electric Ballroom e il WAG la troupe IDJ (I Dance Jazz) ballava al suo ritmo come se non ci fosse un domani.
La Driscoll prestò la sua voce anche a un altro dei primi singoli, Storm Of Light, mentre nella formidabile cavalcata latin jazz di Venceremos, dedicata alla memoria del poeta, cantautore e attivista comunista cileno Victor Jara ucciso dal regime di Pinochet con il beneplacito della CIA, si rincorrevano le nobili voci di Robert Wyatt, di Tracey Thorn (Everything But The Girl) e dell’esule cilena Claudia Figueroa.
Quando arrivò il momento di iniziare a registrare l’album, Booth e Stabbins si misero alla ricerca di una cantante stabile e disponibile a tempo pieno: Larry non voleva una voce jazz; e dopo un breve soggiorno in formazione di Corinne Drewery, futura vocalist degli Swing Out Sister, il ruolo venne assegnato a Julie Roberts, una giovane ragazza di colore innamorata del soul e di Shirley Bassey. In 1 scatto fotografico notturno e in bianco e nero, i 3 figurano insieme sulla copertina vintage di Working Nights, pubblicato dalla Virgin nel maggio del 1985 e prodotto da Millar nel suo Power Plant a Willesden, dove nello stesso periodo lavorava a Eden degli Everything But The Girl e a Diamond Life di Sade Adu e della sua band.
In sala d’incisione aleggiava uno spirito comunitario e i musicisti si susseguivano in processione: alle session presero parte altri jazzisti amici di Stabbins come i trombettisti Harry Beckett (originario delle Barbados) e Guy Barker; il sassofonista Ray Warleigh e la trombonista Annie Whitehead; e insieme a loro un drappello di batteristi; il 1° cantante della band, Leroy Osbourne; il pianista Kim Burton; il bassista colombiano Chucho Merchán che arrivava dai Nucleus di Ian Carr e il suo collega sudafricano Ernest “Shololo” Mothle; un percussionista brasiliano (Bosco De Oliveira) e altri ancora. Una multinazionale di giovani talenti e di veterani, un melting pot che incarnava lo spirito della world music quando ancora il termine doveva diventare di pubblico dominio.
Più disciplinato e più strutturato, meno avventuroso e meno anarchico dei primi singoli ed Ep del gruppo, Working Nights manteneva comunque fede alle promesse mischiando jazz, dance e soul, il classic pop con la salsa e con la musica brasiliana in uno scintillìo notturno, elegante e sfrenato di fiati, archi (arrangiati dal famoso Nick Ingman), pianoforti e percussioni, con Booth nel ruolo di direttore d’orchestra e la sua chitarra quasi sempre un passo indietro. L’amore per la bossa nova manifestato già ai tempi di A View From Her Room, tornava nella versione rallentata e più riflessiva di Venceremos: che non vale quella precedente uscita su singolo e recuperabile sul doppio Cd Cherry Red del 2012, ma resta un’architrave del disco e della produzione della band: morbida e avvolgente, vibrante di feeling e di slancio ideale, veicola ancora oggi un messaggio potente e militante di libertà, lotta e solidarietà umana. Vi emerge la vena latina e terzomondista dei Working Week, protagonista anche in Thought I’d Never See You Again, un flessuoso ballabile che negli ultimi 2 minuti aumenta il ritmo trasformandosi in un samba jazz scatenato; e negli 8 minuti e ½ finali di No Cure No Pay, il momento più be bop del disco.
Scrivendo in coppia o da soli, Booth e Stabbins coltivavano con perizia anche altri stili, fissando su nastro una sontuosa ballad alla Burt Bacharach come Sweet Nothing, uno swing spensierato come Who’s Fooling Who e gioiellini raffinati come Autumn Boy e Solo, che profumano di anni 60, Bassey, Brasile, notti londinesi e colonne sonore di free cinema inglese. Svetta, oltre al virtuosismo dei musicisti, la voce pura, duttile e squillante della Roberts, che fra 1 scat e 1 rap piazza con il resto della band la sua stoccata definitiva già all’inizio, nell’unica cover dell’album: cavandosela alla grande con un monumento soul intoccabile come Inner City Blues di Marvin Gaye: crudo, poetico ed empatico ritratto dei ghetti afroamericani perfettamente nelle corde di un trio che in quegli anni thatcheriani vedeva crescere il divario tra ricchi e poveri ed esplodere la rivolta a Brixton come a Handsworth, nei sobborghi di Birmingham. La rilettura dei Working Week è piuttosto fedele ma più sfavillante ed estroversa; conserva un irresistibile ritmo funky ma è decisamente meno malinconica. Funziona perfettamente, perché come quella di Gaye la loro era musica per il corpo e per la mente, fatta per ballare ma anche per pensare. Univa impegno e divertimento in un momento in cui per sopravvivere, se eri da quella parte della barricata, non potevi fare a meno di entrambi.
Working Week, Working Nights (1985, Virgin)