A Karen Michelle Johnston alias Michelle Shocked lo spirito ribelle, l’istinto battagliero e la propensione a cacciarsi nei guai non sono mai mancati. Ben prima che negli anni 90 s’impegnasse in una causa giudiziaria contro la casa discografica Mercury, appellandosi al 13° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America che proibisce la reintroduzione della schiavitù per sciogliere i suoi vincoli contrattuali (la riconquistata libertà le costò una progressiva emarginazione dal mercato mainstream). E ben prima che agli inizi degli anni 10, dopo essersi professata una cristiana rinata, sollevasse un polverone per certe (a suo dire travisate) dichiarazioni omofobiche che contrastavano con la sua sessualità “fluida ante litteram e con il suo antico appoggio alle cause LGBT.

Nata in una famiglia di ferventi mormoni ma con un padre naturale ateo, giramondo e folk singer, Michelle ha sempre avuto atteggiamenti antagonisti e talvolta apparentemente contradditori. Sicuramente non ha mai amato il conformismo e non ha mai tenuto la bocca chiusa, compresa la volta in cui nel 1984 venne arrestata durante la convention democratica a San Francisco per avere manifestato contro un sistema politico sempre più dipendente dai finanziamenti delle multinazionali: una foto pubblicata sul San Francisco Examiner e che la ritraeva urlante e terrorizzata mentre un poliziotto in tenuta da sommossa sembrava sul punto di strangolarla finì sulla copertina del suo 1° “vero” album: Short Sharp Shocked, titolo e immagine da guerriglia urbana, che proprio la major Mercury pubblicò il 15 agosto 1988 inaugurando la trilogia di dischi per cui tuttora è ricordata da gran parte degli appassionati (seguirono, per la stessa etichetta, il tributo swing di Captain Swing e Arkansas Traveller, l’ambizioso affresco di protoAmericana).

Michelle Shocked

Già allora Michelle – look androgino e total black, capelli corti da maschietto, spesso un cappellino da marinaio in testa – era molto diffidente nei confronti dell’industria discografica, scottata dalla pubblicazione a sua insaputa di quella sorta di bootleg, The Texas Campfire Tapes, che Pete Lawrence fondatore dell’inglese Cooking Vinyl aveva stampato dopo avere catturato con un Sony Walkman una sua spontanea esibizione davanti a un falò ai margini di un festival folk che si teneva nel suo Paese d’origine, il Texas. Sua croce e delizia, dato che proprio grazie a quel disco tutti nell’ambiente avevano cominciato a parlare di lei e a fiutarne il talento in un momento in cui per il neo folk (esordivano in quel periodo anche Tracy Chapman e le Indigo Girls) si aprivano nuove porte.

Quando per Short Sharp Shocked, registrato in vari studi professionali fra Los Angeles e dintorni (compresi i leggendari Capitol di Hollywood), l’etichetta gli propose come produttore Pete Anderson, il chitarrista di Dwight Yoakam, lei rimase sul chi vive e mise subito le cose in chiaro: niente adulterazioni al suono che aveva in testa, un solo strumento aggiunto e scelto con cura per arricchire le tracce base. «Pete scelse quelli giusti», riconobbe in seguito: «l’armonica in Graffiti Limbo, un po’ di banjo in L&N, il dulcimer a martelletti in Black Widow, il violino in Memories Of East Texas», ricorrendo a grandi nomi della musica tradizionale americana come Al Perkins e Byron Berline; e a bluesmen bianchi come Rod Piazza.

Michelle resistette solo all’uso del synth/campionatore Fairlight allora usatissimo («Non sapevo neanche che cosa fosse!») in Anchorage, la cristallina, soave e malinconica ballata folk-rock che ne fece di colpo un’eroina delle college radio americane: storia (vera) di una corrispondenza epistolare fra lei e un’amica d’infanzia che nella più grande città del più grande stato americano, l’Alaska, aveva messo su famiglia provando ancora un moto di nostalgia per i vecchi tempi e un pizzico d’invidia per quell’amica scapestrata che girava in lungo e in largo e che a New York era diventa una skateboard punk rocker. Era la canzone giusta al momento giusto: lo specchio di quell’inquietudine giovanile che ti spinge a lasciare i luoghi in cui sei cresciuto (l’urge for going di cui cantava Joni Mitchell 20 anni prima), ma anche a rimpiangerli per tutta la vita.

Michelle era stata a New York, a San Francisco e ad Amsterdam, ma il Texas ce l’aveva nel sangue e nell’anima. Non a caso, in questo disco lo Stato della Stella Solitaria è onnipresente. Ci sono “il verde dei pini, le dolci colline e i narcisi dorati a primavera ”, le strade secondarie ricoperte di creta rossa, i laghi e i campi coltivati in quell’altro delicato, affettuoso e lirico quadretto che è Memories Of East Texas con chitarra acustica, un violino appalachiano e una jew’s harp (equivalente al nostro scacciapensieri), teneri ricordi che si scontrano con la mentalità ristretta di una comunità rurale che fatica ad accettare una ragazza che ha varcato i confini e visto l’oceano.

Gilmer (il piccolo centro urbano in cui Michelle era cresciuta), Kelsey, l’Upshur County e il Texas orientale fanno da sfondo anche ad altre canzoni: a (Making The Run To) Gladewater, un divertente rockabilly/country swing con un vivace assolo di pianoforte che racconta la fuga notturna da un paese “secco come una bottiglia vuota da quando ci sono arrivati i Mormoni ”; e una lunga corsa in autostrada per raggiungere prima che chiuda le serrande un mini market in cui procurarsi l’agognata scorta di lattine di birra in confezione six pack. E poi al folk incalzante e ritmato dai bongos di V.F.D., cronaca del giorno in cui la piccola Michelle e i suoi amici giocando con una scatola di fiammiferi provocarono un incendio nell’arsa pianura texana costringendo all’intervento il corpo volontario dei vigili del fuoco.

Storie di vita vissuta e di piccole trasgressioni che quella ragazza di 26 anni, con grande stupore di Anderson, raccontava con la sciolta sicurezza e la maturità di una folk singer consumata. Anche nei toni più scuri e meditabondi di Black Widow o nei pezzi a tinte più blues: When I Grow Up, un boogie ironico e paradossale guidato dal walking bass del produttore in cui Shocked s’immagina in futuro nei panni di una quieta madre di famiglia circondata da 120 pargoli; in Graffiti Limbo, straordinaria canzone di protesta secca, drammatica e tagliente che racconta la tragica, vera storia del giovane graffitaro afroamericano Michael Stewart, arrestato nella metropolitana di New York e strangolato a morte da un poliziotto, enunciata fra canto e “talking ” con lo sdegno civile di un Woody Guthrie o di un Dave Van Ronk; e nell’elettrica, sbuffante e incalzante If Love Was A Train, in cui il treno diventa il pretesto per sciorinare esplicite metafore sessuali (“se l’amore fosse un treno/credo che mi piacerebbe prenderne uno che viaggia lentamente/per tutta la notte facendo tutte le fermate ”…;“ma più che a un treno l’amore assomiglia a un toro da rodeo in cui resti in sella al massimo 15 secondi ”).

Il mezzo di locomozione, protagonista immancabile delle ballate popolari statunitensi e della sua letteratura on the road, figura anche nella storia di arrivi e partenze di Hello Hopeville, pimpante country & western; e nell’unica cover, The L & N Don’t Stop Here Anymore, scritta e incisa nel 1965 dalla folk singer appalachiana Jean Ritchie ma famosa soprattutto nella versione di Johnny Cash: un’amara elegia sulla scomparsa delle vecchie città minerarie in cui la ferrovia Louisville and Nashville Railroad non prevede più fermate dopo la chiusura dei giacimenti di carbone. È una vecchia cartolina di un’America depressa ed emarginata quanto quella contemporanea, nei quartieri ghetto frequentati da prostitute, tossici e spacciatori che costellano la città della nebbia, San Francisco.

Unica ripresa dai Texas Campfire Tapes di 2 anni prima e scritta in ricordo dei tempi in cui nella città californiana Michelle faceva la squatter abitando in case occupate abusivamente, qui Fogtown cambia completamente pelle. Là era una ballata acustica lo-fi con sottofondo di grilli e di camion che sfrecciano sull’autostrada; qui un hardcore punk irrobustito dalla presenza degli MDC, gruppo di Austin che proprio a Frisco aveva cominciato a farsi conoscere a livello nazionale. Cambiava il linguaggio, restava immutato l’atteggiamento risoluto e antagonista di una volitiva ragazza di strada autodidatta che aveva una convinzione ben piantata in testa: «La musica è troppo importante per essere lasciata in mano ai professionisti». E alle case discografiche.

(Ci segnalano che al momento Short Sharp Shocked non risulta più disponibile sul mercato: né in formato fisico, né in formato digitale, neppure come usato su Discogs)

Michelle Shocked, Short Sharp Shocked (1988, Mercury)