Teste rasate, Dr. Martens e anfibi ai piedi, bomber,  jeans, magliette Fred Perry, bretelle e camicie button down, sguardo truce e nomea di gente manesca e violenta, hooligan con simpatie neofasciste e filonaziste. Lo stereotipo dello skinhead nasconde una realtà più sfaccettata. Legami con altre subculture proletarie nate nei Sixties in Inghilterra, con i mod e con i rude boys giamaicani: amore per la musica nera, atteggiamento apolitico ma anche simpatie a sinistra.

A fine anni 70 a York, Inghilterra settentrionale, il cantante e chitarrista Chris Moore (nome d’arte Chris Dean) e il bassista Martin Bottomley alias Martin Hewes stanno inequivocabilmente da quella parte della barricata. Iscritti al Socialist Workers Party (SWP), il partito socialista dei lavoratori di matrice trotzkista, partecipano alle marce della lega anti nazista e scelgono per il loro 1° gruppo un nome che non si presta a fraintendimenti: No Swastikas. Poi, con il batterista Nick King (che si professa anarchico), fondano i Redskins. “Pellerossa” che non accettano di starsene rinchiusi in una riserva. Ma soprattutto skinheadrossi ” con una chiara agenda politica e un progetto musicale ambizioso: «Cantare come le Supremes e camminare come i Clash». Collocati su posizioni molto più radicali del Red Wedge, il Cuneo Rosso capeggiato da Billy Bragg, Paul Weller e gli Style Council, Jerry Dammers degli Specials e Jimmy Somerville dei Communards che appoggiava il Partito Laburista e il suo candidato al Governo Neil Kinnock (Dean, lì in mezzo, era l’extraparlamentare pronto a far saltare il banco: per questo tra lui e Bragg ci furono anche scintille e polemiche).

Martin Hewes, Paul Hookham, Chris Dean

Imbracciando una Telecaster appartenuta a Joe Strummer e regalatagli dal collega giornalista Charles Shaar Murray (con lo pseudonimo di X. Moore, Chris scriveva sul New Musical Express), il leader, ideologo e portavoce dei Redskins è determinato a seguire una strada diversa: vuole combinare l’energia rabbiosa e iconoclasta del punk con i ritmi ballabili della Tamla Motown e con un ideale politico. Suonare e cantare il soul – la musica di rivalsa e di riscatto sociale dei neri – a pugno chiuso. Tutto, l’intero pacchetto, viene concepito in quell’ottica. Le copertine dei dischi a caratteri cubitali bianchi e rossi che sembrano volantini pronti a essere distribuiti davanti ai cancelli delle fabbriche. Quei punti esclamativi che chiosano i titoli delle canzoni, come fossero slogan da corteo o grida di battaglia. L’obiettivo di avere successo e di diventare popolari («Ho sempre odiato le band ribelli che vogliono restare nell’underground», diceva Chris. «Sporcatevi le mani ed entrate in classifica»). Pubblicati i primi singoli per la indie CNT Productions di Jon Langford dei Mekons, agitatori della scena punk di Leeds e dintorni (il 1° s’intitola Lev Bronstein: il vero nome di Leon Trotsky) il trio firma un contratto con una major, la London Records del gruppo Decca, sfornando un’altra sequenza di 45 giri tosti, accattivanti e bellicosi, tutti inclusi in seguito in un unico album di studio che riserverà poche sorprese ai fan della prima ora (6 pezzi su 11 erano già editi).

S’intitola Neither Washington Nor Moscow (uno slogan preso in prestito dal fondatore dello SWP Tony Cliff e che professa fede nell’Internazionale Socialista), rivendica indipendenza politica e di giudizio e nell’aprile del 1986 sembra arrivare nei negozi fuori tempo massimo. In realtà fotografa benissimo un Regno Unito mai così disunito, annaspante fra le macerie di un sistema industriale e i cascami di un tessuto sociale demoliti e sfibrati dal durissimo confronto fra Margaret Thatcher e i minatori inglesi, conclusosi nel marzo del 1985 dopo 358 giorni di scioperi e di proteste con la vittoria della Lady di ferro. I Redskins ne erano stati protagonisti attivi e non solo testimoni: dischi, interviste, proclami, partecipazioni a manifestazioni di piazza e una miriade di concerti di beneficenza.

Lucido e pragmatico, Dean aveva una profonda convinzione: la musica non poteva cambiare il mondo ma quantomeno contribuire ad accendere il dibattito, a risvegliare le coscienze. Non era bastato, l’anno prima, a rivoltare il corso della Storia ma era il caso d’insistere. Di ribadire e portare anche altrove, oltre confine e nel resto del mondo, quelle battaglie e quello spirito combattivo e tenace. A quello doveva servire quel disco-manifesto, esplosivo come una molotov e presentato da una copertina in stile Costruttivista Sovietico che raffigurava un frame della Corazzata Potemkin e un mappamondo (servivano alla causa anche quei frammenti di discorsi e di comizi infilati in mezzo o in coda alle canzoni). Era, auspicabilmente, un nuovo punto di partenza ma anche un sommario e un promemoria per chi si fosse perso le puntate precedenti.

Come Kick Over The Statues!, che avevano pubblicato di loro iniziativa rubando il master alla casa discografica contraria alla pubblicazione: un singolo frenetico e ringhioso che l’anno prima era servito a raccogliere fondi per l’African National Congress di Nelson Mandela e per i sindacati sudafricani; un invito ai popoli del mondo a buttar giù le statue simbolo del potere e a prendere a calci le teste dei leader: «In Polonia i lavoratori sono insorti e così anche in Ungheria. Somoza e Jose sono caduti… e presto toccherà all’Azania». Visto ciò che sarebbe accaduto dopo – nei Paesi dell’ex blocco comunista, a Baghdad come a Londra – una canzone buona per tutte le stagioni. E un compendio dello stile Redskins: voce soul, roca e grintosa alla Wilson Pickett (di cui la band incise Ninety Nine And A Half (Won’t Do) pubblicandola come lato b di un singolo e facendone un cavallo di battaglia dei concerti); ritmica implacabile che univa i puntini del Detroit Sound (la città della Motown, ma anche degli MC5); un mix tra Fall e Four Tops (2 grandi fonti d’ispirazione per Dean); la chitarra ritmica alla James Brown; una sezione fiati di scuola jazz funk e in stile Stax (alla tromba Steve Nichol, l’ex Loose Ends che aveva accompagnato i Jam in The Gift e nel tour successivo). Una versione più anfetaminica e incazzosa del suono che qualche tempo prima aveva indotto l’NME a definire Lean On Me! – inno alla solidarietà di classe mascherato da canzone d’amore – “un classico del modern soul ”. Era l’ultimo degli 11 pezzi in un album che si apriva con l’inedita The Power Is Yours e con la voce solitaria di Dean: uno dopo l’altro il basso di Hewes, le dita schioccanti, la batteria, un organo e un assolo di sax facevano da contorno al suo invito all’azione (“passiamo la vita/aspettando che siano gli altri a fare una mossa al nostro posto”).

Go Get Organized! e Hold On! mostravano che i Redskins avevano anche radici punkabilly e rock and roll, ma era soprattutto quell’r&b al calor bianco a rendere incandescente Neither Washington Nor Moscow: It Can Be Done! (ultimo singolo della band), l’unica hit da Top 40 Bring It Down! (congas latine, accenti decisamente funk e il drumming rotondo di Steve White in prestito dagli Style Council prima che Paul Hookham sostituisse King dietro i tamburi) e Turnin’ Loose che strizzava decisamente l’occhio a James Brown, mentre Let’s Make It Work! accennava alla disco e nel finale di Take No Heroes! la cornetta di Nichol si ritagliava un ruolo da protagonista.

Ancora meglio Keep On Keepin’ On, un’altra esortazione a tenere duro e il singolo che nelle intenzioni dei Redskins e della London avrebbe dovuto fare breccia nelle charts e lanciare il gruppo nell’orbita del mainstream. Compatta, vibrante, sfrontata, accattivante: ma il singolo si fermò al N°43 e Dean & Co percepirono l’atteggiamento ostile dell’establishment quando durante l’esecuzione dal vivo nel programma televisivo The Tube di Channel 4 un microfono si rifiutò di amplificare la voce di un minatore di Durham che il gruppo aveva invitato sul palco per pronunciare un breve discorso nel bel mezzo dello sciopero a oltranza (sabotaggio o fortuito incidente tecnico come sostennero i produttori dello show? Non si è mai saputo).

Neither Washington Nor Moscow, 2 anni dopo, si arrampicò fino al N°31 ma poi, nel gennaio del 1987, i Redskins ammainarono la bandiera per volontà di Dean. Dopo la sconfitta dei minatori il frontman si sentiva svuotato, privato di una missione: «Al momento», dichiarò, «e considerato il fatto che la classe lavoratrice non è davvero impegnata nella lotta, i Redskins sono diventati sostanzialmente propaganda astratta. È come sparare al buio». Da allora è scomparso alla vista trasferendosi a Parigi, negandosi ai giornalisti e anche alla casa discografica che nell’autunno del 2021 ha ristampato l’album sotto forma di vinile 180 grammi e di box set con 4 Cd zeppi di outtake, versioni alternative, remix e registrazioni dal vivo. Il tempo dei Redskins, per lui, era già scaduto. Eppure, in 5 anni appena, la band era riuscita a dimostrare una cosa importante che oggi in tanti sembrano avere dimenticato: “mescolare pop e politica”, come cantava l’amico/rivale Billy Bragg, non è un atto futile e velleitario neanche quando la Storia sembra relegarti tra i perdenti. Qualche altra statua, prima o poi, è destinata a cadere.

Redskins, Neither Washington Nor Moscow (1986, London)