Nick e John si amavano. Un po’ come due greci dell’antichità, ma senza il sesso

Amica intima di entrambi, la cantante Linda Thompson ha ricordato così a Graeme Thomson del Guardian, qualche anno fa, lo strettissimo legame che esisteva fra Nick Drake e John Martyn. Nick l’introverso, enigmatico, silenzioso e malinconico. John l’estroverso, loquace, sarcastico e casinista. Entrambi con i loro traumi e problemi irrisolti, entrambi dotati di un talento sconfinato, star luminose ma snobbate dal grande pubblico di quella scena musicale britannica che tra fine anni 60 e primi ’70 veniva apparentata al circuito folk.

Nel 1972, dopo avere pubblicato Pink Moon, Drake stava precipitando nel gorgo della depressione che 2 anni dopo lo avrebbe portato alla morte. Martyn gli dedicò allora una canzone che descriveva un grande disagio esistenziale e sembrava presagire il suo tragico destino porgendo al tempo stesso uno struggente, quasi disperato attestato di fedeltà e di amicizia (“ti conosco, ti voglio bene/e potrei esserti amico/seguirti anche attraverso l’aria solida ”). Quell’aria solida che a Nick tarpava le ali e impediva di respirare, mentre nella sua testa si accumulavano torbidi pensieri. Solid Air diventerà poi il titolo del 4° album di studio di John, pubblicato nel febbraio del 1973 quando l’artista nato in Inghilterra ma cresciuto a Glasgow (padre scozzese, madre belga d’origine ebraica, entrambi cantanti d’opera divorziati quando lui aveva 5 anni) era un giovane 24enne in piena ascesa. Il più bello, il più intenso, il più compiuto e anche uno dei più fortunati di una carriera straordinaria mai baciata dai grandi numeri.

John Martyn
(1948-2009)

Martyn inizia a registrarlo nel luglio del 1972 ai Sound Techniques di Chelsea: il piccolo, confortevole ed efficiente studio di cui il suo produttore e fonico John Wood è comproprietario, ma i primi passi sono incerti. E non solo in senso metaforico: cadendo rovinosamente da una scala, Wood si procura una forte distorsione alla caviglia che costringe a rimandare i lavori mandando all’aria il piano originale della casa discografica, la Island di Chris Blackwell, che in previsione di un tour nordamericano programmato a inizio ’73 in compagnia di Free e Traffic, intenderebbe circondare Martyn con diversi nomi di grande richiamo. Non se ne fa nulla; e probabilmente è un bene, perché quando i 2 ripartono da zero a novembre, trasferendosi negli studi della Island a Basing Street, decidono invece di rivolgersi a un gruppo fidato di amici con cui si trovano a loro agio.

A cominciare da Danny Thompson, reduce dall’avventura dei Pentangle, compagno di bevute colossali e di mattane con cui John ha sviluppato una profonda telepatìa musicale: le prime note che si sentono nel disco sono i rintocchi profondi di Victoria, il suo amatissimo contrabbasso. In quel periodo Martyn sembra piuttosto sereno ed equilibrato: ha lasciato Hampstead, all’epoca quartiere bohémienne di Londra popolato da artisti spiantati, per l’East Sussex e la città costiera di Hastings, dove vive una vita apparentemente tranquilla accanto alla moglie Beverley Kutner, sua ex partner musicale, e ai loro bambini. Il bassista Dave Pegg e il batterista Dave Mattacks rientrano a loro volta fra le prime scelte di Martyn e Wood; e ricordano in studio un’atmosfera di grande concentrazione con poche distrazioni: «Forse ogni tanto andavamo al pub», ha ricordato Pegg, a sua volta un gran bevitore, «ma in genere si lavorava seriamente e a testa bassa».

Suonando con gusto, precisione e leggerezza, senza mai strafare, la sezione ritmica dei Fairport Convention contribuisce all’umore notturno e alle atmosfere spesso soffuse di un disco prevalentemente acustico, in bilico fra il passato folk blues di Martyn e le sue evoluzioni stilistiche successive. Nella meravigliosa title track che apre il disco dettandone il mood, il piano elettrico del texano JohnRabbitBundrick (futuro collaboratore degli Who, allora con i Free), il vibrafono del percussionista d’estrazione classica Tristan Fry e il sassofono del jazzista Tony Coe contribuiscono a materializzare quella magica aria solida, quel suono rarefatto e sospeso a mezz’aria nato da una jam improvvisata su cui Martyn appoggia i suoi arpeggi di chitarra e quella voce acre e liquorosa che biascica, strozza e storpia le parole (“zzzolid ”). «L’ho sempre usata come uno strumento», spiegherà Martyn: il feeling che trasmettono è più importante del loro senso compiuto, le frasi si attorcigliano in quelle canzoni da ore piccole, fra notte fonda e il sorgere del sole, comunque alimentate – lontano da occhi indiscreti – dal consumo di additivi e di “generi di conforto ”.

«Non ne ho mai abbastanza della dolce cocaina, non he ho mai abbastanza di Mary Jane» (il nomignolo attribuito alla marijuana), confessa John con un candore che oggi verrebbe implacabilmente sanzionato dal politically correct in Over The Hill, il pezzo più folk e più spensierato del mazzo: Martyn lo scrive una mattina all’alba mentre torna in treno a Hastings da Londra con gli occhi stropicciati dal sonno, osservando dai binari la sua abitazione abbarbicata su una collina a picco sul mare, celebrando la felicità del ritorno a casa in uno squillante intreccio di strumenti a corde, la sua chitarra acustica, il mandolino di Richard Thompson, l’autoharp di Simon Nicol e il violino di Sue Draheim.

Anche la voce in falsetto, l’arpeggio chitarristico e il contrabbasso pizzicato di Go Down Easy dipingono un quadretto pigro e sensuale di affetti domestici (“ti accartocci intorno a me come una felce a primavera ”), mentre Don’t Want To Know (in seguito interpretata da Dr. John e da Beth Orton) esprime il desiderio di sfuggire ai peccati del mondo: “non voglio sapere nulla della malvagità/voglio solo sapere dell’amore ”, canta Martyn sovraincidendo la voce su 2 piste mentre Bundrick disegna un vivace e jazzato assolo alla tastiera e Pegg e Mattacks punteggiano la melodia con un ritmo agile e flessuoso; lì, e nella bossa nova jazzata di The Man In The Station (è sempre Martyn, l’uomo che sotto la pioggia si appresta a salire sul prossimo treno verso casa mentre lo specchio riflette il suo volto stanco e tirato) nasce con quasi 20 anni d’anticipo il chill-out.

Si coglie un sottile senso d’inquietudine, che esplode nei 2 pezzi più elettrici, spericolati e sperimentali di Solid Air. Immersi negli echi, negli effetti e nei gorgoglii dell’echoplex , il dispositivo che gioca con il delay delle registrazioni su nastro e che Martyn applica con straordinaria efficacia alla sua chitarra distorta dal pedale del fuzz, Dreams By The Sea e I’d Rather Be The Devil spalancano gli angoli bui del disco: la prima (di nuovo con il sax di Coe, e una chitarra che sembra imitare quella del quasi contemporaneo Theme From Shaft di Isaac Hayes) materializza un incubo indotto dalla gelosia e forse dall’astinenza dalle droghe; mentre nella seconda, avveniristica e schiumante rielaborazione di Devil Got My Woman di Skip James, bluesman del Mississippi, un Martyn davvero diabolico indossa i panni dell’amante misogino che identifica la sua donna con il male, il peccato e un mare di guai. È una tempesta in cui le sue corde e i suoi loop si infrangono contro il contrabbasso di Thompson e i piatti di Mattacks, il clavinet di “Rabbit” e le congas di NeemoiSpeedyAcquaye; un’anticipazione (forse) dei demoni che lo porteranno in seguito a sregolatezze incontrollate e a violenze domestiche nei confronti della moglie. È il vecchio amore per il blues, ripreso in maniera molto più ortodossa nel pezzo finale, quell’Easy Blues che abbina la rivisitazione in acustico di un vecchio standard di Jelly Roll Baker spesso proposto dal vivo (Jelly Roll Blues) a un’elettrica Gentle Blues con un miagolante sintetizzatore suonato dallo stesso Martyn.

Manca un solo pezzo a comporre il puzzle, a completare un disco che dura meno di 35 minuti e non ha una nota di troppo. May You Never è stata scritta in coda alle session dell’album precedente, Bless The Weather, e registrata in versione elettrica nel novembre del 1971 con la chitarra di Paul Kossof dei Free per essere pubblicata come singolo, ma John non ne è per nulla soddisfatto: Wood lo convince a tornare in studio alle 2 di mattina e a inciderla in una unica take da solo, voce e chitarra, appena prima che il fonico/produttore salti su un aereo diretto a New York con in valigia le bobine da masterizzare. Quella semplice e tenera ballata (scritta, secondo qualcuno, per il figlio adottivo Wesley; secondo altri per Andy Matthewsil Greco”, titolare del folk club Les Cousins in cui John aveva mosso i primi passi a Londra) diventerà il suo biglietto da visita e il suo vitalizio, grazie alle royalty fruttate dalla fortunata versione che Eric Clapton includerà nel 1977 nell’album Slowhand. Un’altra ode, stavolta più serena, all’amicizia virile. “Possa tu non dovere mai abbassare la testa senza una mano da tenere/e doverti fare il fuori al freddo ”, canta John invitando il destinatario della canzone a non perdere mai il controllo dei nervi, neanche dovesse trovare coinvolto (come a lui capitava) in una rissa da bar.

Parla anche a se stesso, forse immaginando che quel suo precario equilibrio esistenziale e sentimentale non è destinato a durare. Andrà cosi, con lunghi periodi bui e uno stile di vita pericolosamente autodistruttivo, grandi dischi come One World (1977) e il sanguinante divorce album Grace And Danger (1980), l’amputazione della gamba destra sotto il ginocchio per setticemìa: anche se per fortuna, quando nel gennaio del 2009 morirà nella sua casa in Irlanda a soli 60 anni per problemi respiratori, a tenere la sua mano ci sarà comunque qualcuno: Theresa Walsh, compagna fedele degli ultimi 10 anni di vita.

John Martyn, Solid Air (1973, Island)