Settembre 1970. Prima di What’s Going On di Marvin Gaye, prima di There’s A Riot Goin’ On di Sly & The Family Stone, prima della colonna sonora di Superfly (il più grande successo commerciale di Curtis Mayfield) è Curtis, 1° album solista dell’artista di Chicago, a fotografare il tramonto definitivo di una grande illusione e l’alba di un decennio che per la comunità afroamericana si preannuncia infausto. Sono passati poco più di 2 anni dagli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy, l’abolizione delle discriminazioni razziali e la conquista dei diritti civili restano un miraggio a dispetto di quanto sancito dalle leggi federali e la colored people è la prima vittima delle politiche reazionarie di Richard Nixon, della recessione, della povertà, della microcriminalità, dello spaccio di droghe pesanti e della violenza sulle strade.
È un destino che tuttavia sembra accomunare tutti: “Sorelle. Negri. Visi pallidi. Ebrei. Pezzenti razzisti del Sud. Non preoccupatevi. Se c’è un inferno, qui sotto, ci finiremo tutti quanti ”, declama Mayfield calcando toni ed epiteti all’inizio dell’album e della apocalittica (Don’t Worry) If There’s A Hell Below, We’re All Going To Go con la voce rimbombante amplificata dall’eco dopo che un basso elettrico distorto con l’effetto fuzz ha rotto il silenzio e un’altra voce, femminile, ha evocato i versi del Libro della Rivelazione.
Cos’è successo al dolce cantore degli Impressions, che con i compagni di band per 14 anni aveva intonato soavi armonie vocali di matrice gospel? È successo che le promesse degli anni 60 sono andate in frantumi e che lui, l’autore di inni dell’orgoglio nero come Keep On Pushing e We’re A Winner, Choice Of Colors e This Is My Country, vuole avere carta bianca quando sente il bisogno d’incidere canzoni “politiche ” e di protesta abbandonando la posizione di acuto osservatore della realtà per scendere in piazza e diventare lui stesso un attivista del movimento dei diritti civili oltre che un modello di autodeterminazione e di indipendenza (anche imprenditoriale, grazie all’impegno profuso nella casa discografica Curtom fondata insieme al manager). Dopo avere pronunciato quelle parole decise e provocatorie, all’inizio del brano emette un urlo da brividi: è davvero mr. Mayfield, quello, si chiedono i fan e gli ascoltatori dopo avere sentito alla radio la versione a 45 giri, tagliata e accorciata, di quel ribollente e incalzante soul psichedelico di quasi 8 minuti privo di ritornello? Sì, è proprio lui. Il “Genio Gentile”, che nel pezzo cita Nixon per nome e dipinge l’inferno del ghetto ma non rinuncia alla sua eleganza innata, alla sua misura e al suo senso per la melodia. Lui, abituato a farsi ascoltare sussurrando e non gridando, come ha ricordato qualche anno fa la giornalista Lois Wilson in un articolo pubblicato sul mensile britannico Mojo.
Quando nel maggio del 1970 fa il suo ingresso negli studi della RCA a Chicago, ha tutto chiaro in testa: vuole un sound ricco, dinamico, ritmato, percussivo, in cui giocheranno un ruolo essenziale gli archi arrangiati da Riley Hampton (che aveva lavorato alla Chess con Etta James) e i fiati orchestrati da Gary Slabo. Con i numerosi turnisti invitati in sala di incisione Mayfield è cortese ma risoluto, un despota garbato dal pugno di ferro in un guanto di velluto: a ognuno di loro consegna uno spartito chiedendogli di rispettarlo in maniera rigorosa. È esigente con tutti ma soprattutto con se stesso. «Spesso si metteva a scrivere una canzone di pomeriggio, di sera a casa ne realizzava un provino, lo incideva e il giorno dopo arrivava in studio con il suo registratore», ha raccontato nel 2008 alla stessa Wilson Melvyn “Deacon” Jones, che per lui ha lavorato negli uffici della Curtom. «Altre volte telefonava ai musicisti nel cuore della notte chiedendogli di andare subito in studio. Alla fine della session erano tutti lì addormentati mentre lui sedeva al banco di regia sveglio come un grillo, intento a riascoltare il tutto per sincerarsi di avere in mano ciò che desiderava».
Il risultato è strabiliante: archi e fiati avvolgono le melodie, la sezione ritmica si arricchisce di congas latine (alle percussioni c’è il fedelissimo “Master” Henry Gibson), il wah wah colora di funky la chitarra ritmica, il timbro tenorile e il falsetto di Curtis veicolano con toni suadenti i suoi incitamenti e le sue idee confermandolo tra le voci più autorevoli e carismatiche del Black Pride, l’orgoglio nero. È soul orchestrale e militante, il suo, ma non solo, perché in Curtis ci sono anche ballads e canzoni d’amore: Miss Black America inizia come un tenero dialogo fra padre e figlia per diventare poi un inno all’empowerment femminile mentre sulla tastiera del basso elettrico corre veloce la mano di Philip Upchurch, grande musicista jazz; la delicata, incantata The Makings Of You (poi incisa anche da Gladys Knight & The Pips) ha il sapore di un classico istantaneo anche se su singolo viene sacrificata come lato b di (Don’t Worry) If There’s A Hell Below, We’re All Going To Go.
Wild And Free, solare e assertiva, è il momento che più richiama le ultime produzioni degli Impressions mentre la conclusiva Give It Up prosegue nello stesso solco accennando forse nel testo alle difficoltà che l’autore sta vivendo in quel periodo nella sua vita matrimoniale. Sono però le altre message songs a lasciare il segno più profondo. Introdotta dal suono angelico dell’arpa e dallo sciabordìo dei piatti della batteria, The Other Side Of Town è una piccola sinfonia metropolitana che sotto il velo di una musica ariosa e colorata agita lo spettro della depressione e i fantasmi di chi vive in un ghetto su cui non batte mai il sole. We The People Who Are Darker Than Blue è ancora più bella: puro, commovente, coinvolgente, poetico urban soul che invita non solo i neri ma anche i “gialli ” e i “mulatti ” a battersi contro la segregazione (“noi gente più scura del blu/abbiamo intenzione di restarcene con le mani in mano in questa città/e permettere che ciò che gli altri dicono di noi diventi realtà? ”); una rapsodia in blu interrotta da un lungo break strumentale e percussivo prima che l’arpa reintroduca il tema iniziale.
L’incitamento diventa un irresistibile richiamo all’azione in Move On Up, il pezzo più famoso di Curtis: un funk soul di quasi 9 minuti che anche in tempi grami non rinuncia alla speranza, alla luce e all’ottimismo, coniando un nuovo slogan e resuscitandone uno antico (“keep on pushin ”, “insisti ”). Mayfield la scrive ispirandosi esplicitamente alla lezione degli Staple Singers, amici e vicini di casa, e del loro leader Pops Staples che è stato anche uno dei suoi principali modelli chitarristici con quel suo sound stoppato, ritmico e sincopato. Groove implacabile e riff di fiati inconfondibile, nella versione ridotta senza lunga coda percussiva e assolo di sax viene stampata su un 45 giri che non entra in classifica negli Stati Uniti ma arriva al N°12 in Inghilterra contribuendo in maniera decisiva al grande successo dell’album (N°1 nella Black Albums Chart di Billboard per 5 settimane consecutive, N°19 nelle classifiche pop americane) diventando un evergreen che ancora si ascolta con frequenza in radio e si balla nei club. Verrà ripresa da molti (anche da Paul Weller, prima con i Jam e poi con gli Style Council), campionata da artisti hip-hop, adottata dai tifosi dell’Arsenal come coro da fine partita e scelta da Joe Biden come sigla di chiusura dei suoi discorsi durante la campagna presidenziale del 2020.
«Avevamo bisogno di un po’ di speranza e Curtis ce la diede», riconoscerà Fred Cash, suo compagno negli Impressions. In epoca di Black Lives Matter, di razzismi che rialzano la testa, di depressione economica e di disillusione il suo messaggio non ha perso un grammo di forza. E Curtis è ancora un balsamo per il corpo e per la mente che travalica contingenze storiche e barriere di razza: fa ballare e fa pensare, ispira e motiva, conforta e incoraggia con quell’invito a diventare padroni del proprio destino e a non farsi calpestare da nessuno.
Curtis Mayfield, Curtis (1970, Curtom)