Quante volte è capitato, nella storia della musica? Il disco (forse) più bello di Willy DeVille, indicato da Rolling Stone tra i 5 migliori album del 1980, fu anche l’Lp che costò ai Mink DeVille, la band di cui allora era il leader,  il contratto con la Capitol Records alimentando un grande rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e che non fu.

Un elemento ricorrente nella vita e nella carriera di William PaulBillyBorsey Jr., nato nel Connecticut con sangue spagnolo, irlandese e nativo americano nelle vene. Diventato adulto sulle strade del Lower East Side e del West Village di New York, una scuola di vita che non faceva sconti ai figli della classe operaia scappati presto da scuola come lui. E infine vittima di un equivoco di fondo. Al CBGB di Hilly Kristal sulla Bowery, di cui diventarono subito una delle house band, i Mink DeVille condividevano il palco con gli astri nascenti del punk e della new wave cittadina; ma era un’altra New York quella di cui Willy fantasticava e che aveva in testa: quella di Doc Pomus e del Brill Building, quella dei Drifters e di Ben E. King, del grande pop sinfonico e del soul latino. I magici anni 60 di una metropoli romantica, ma anche pericolosa e avventurosa.

Willy DeVille
(1950-2009)

Proprio come lui, proprio come la sua musica: un folgorante esordio per la Capitol, Cabretta, e un seguito, Return To Magenta, che senza neanche se ne rendesse conto avevano trasformato in realtà un sogno: farsi produrre dal braccio destro di Phil Spector, Jack Nitzsche, che in studio si portava dietro un asso come il sassofonista Steve Douglas. Molti – dopo il grande clamore suscitato da Bruce Springsteen con Born To Run e con Darkness On The Edge Of Town – paragonarono il suo stile, il suo fraseggio melodioso e poderoso a quello di Clarence Clemons della E Street Band senza sapere che lui, alla corte di Spector, era stato un membro della leggendaria Wrecking Crew di Los Angeles e aveva suonato con chiunque: con le Crystals, con i Beach Boys, con Dion DiMucci, recentemente con Bob Dylan su Street Legal.

Tutto miele per le orecchie di DeVille, allora 29enne e in piena ascesa, che con Le Chat Bleu era pronto a sognare ancora più in grande. Innamorato perso di Edith Piaf, decise che il nuovo disco lo avrebbe registrato non solo a New York ma anche a Parigi: ci sarebbe stata una sezione d’archi, e ad arrangiarla avrebbe chiamato proprio lo storico collaboratore della leggendaria chanteuse, Jean-Claude Petit. Smantellata la prima formazione dei Mink DeVille (restava al suo posto solo il chitarrista Louis X. Erlanger), entrava in scena una sezione ritmica da sballo: Ron Tutt e Jerry Scheff, batterista e bassista della TCB Band di Elvis Presley. Ma soprattutto c’era di mezzo l’idolatrato Pomus, che Willy aveva incontrato grazie a Erlanger una sera del 1979 nel camerino del Bottom Line e che gli aveva detto semplicemente: «Mi piace un sacco la tua voce, ragazzo».

In lui il vecchio maestro costretto su una sedia a rotelle vedeva un continuatore del suo stile, un autentico cantore della strada e del ghetto, l’essenza di un certo spirito newyorkese. Insieme, nel suo appartamento sulla 72ma Strada Ovest di Manhattan, scrissero 3 gioielli: se That World Outside e You Just Keep Holding On celebravano la forza dell’amore contro ogni avversità, fra sax voluttuosi e romantici, xylofoni, nacchere, pianoforti e visioni in technicolor come ai tempi di Spanish Harlem e di Save The Last Dance For Me, Just To Walk That Little Girl Home ritraeva un caffè sperduto chissà dove all’ora di chiusura, immergendosi fra umori latini, archi e i tasti della fisarmonica di Kenny Margolis, il nuovo membro del gruppo.

3 ballate meravigliose, 3 frecce nel cuore di chi aveva orecchie per ascoltare e che dischiudevano un mondo nuovo e antico: sound classico e gran voce soul con in più una dose di urgenza e di aggressività figlia dei tempi, del punk e della sua vita spericolata. Era lo stesso universo dipinto dalle prime note del disco, nei primi solchi di This Must Be The Night, un inno alla notte che anche ai loser sembrava aprire infinite possibilità, i cori femminili e il 1° ingresso in scena dei sax di Douglas. Il piano, i fiati mariachi e le percussioni di Slow Drain parlavano ancora una lingua meticcia e ispanica, gettando un ponte fra Spanish Harlem e il Quartiere Latino di Parigi, mentre le chitarre elettriche e taglienti di Savoir Faire e di Lipstick Traces, l’indole sexy e sfrontata della voce, ricordavano che Willy aveva anche un’anima rock e stradaiola e gli impulsi lascivi dei Rolling Stones. Lì celebrava 2 ragazze che lo facevano ardere di desiderio: la prima ammirata per il suo stile, il suo gusto nel vestire e le sue gambe lunghissime (“forse in qualche caffè/forse sugli Champs-Élysées, forse a Roma o sulla Avenue C/so di avere visto la tua faccia da qualche parte prima d’ora”); la seconda, una chimera inseguita invano che dietro di lei lasciava come unico indizio le tracce del suo rossetto.

Quando poi si trattava di scegliere una cover, nulla poteva calzargli meglio di Bad Boy, il vecchio successo dei Jive Bombers datato 1957 molto frequentato anche dagli artisti rock (Ringo Starr, David Johansen nei panni di Buster Poindexter), l’r&b e il doo wop che accompagnavano l’autoritratto scherzoso di un dandy nottambulo, perditempo e un po’ pazzoide: sembrava proprio lui, Willy, 20 anni dopo o poco più la pubblicazione dell’originale. In omaggio all’aroma francese del disco e a un’altra terra amata da DeVille, la Louisiana, c’era spazio nell’album anche per un autentico zydeco, Mazurka, cofirmato dalla fisarmonicista creola Queen Ida (e sostituito nella successiva stampa americana dell’Lp da un più ordinario funk rock come Turn You Every Way But Loose). Poi, il gran finale: l’arpeggio classicheggiante di Margolis al pianoforte, gli archi, la voce prima recitante e poi colma di sentimento di Willy intonavano una “rapsodia celestiale ”: un impareggiabile mèlo da colonna sonora cinematografica che accarezza l’anima e strazia il cuore mentre il vento sussurra dolcemente nelle orecchie e lassù il cielo resta immobile (è diventata anche il titolo di un documentario diretto da Larry Locke che speriamo di poter vedere anche in Italia).

Un vero coup de grâce, per citare il titolo del disco successivo dei Mink DeVille. Peccato che nel mondo reale le cose non andassero come Willy aveva immaginato. Con sua moglie Toots (sua la spalla e il tatuaggio con la pantera che si vedono sulla copertina del disco), annebbiato dall’eroina, a Parigi sforò il budget presentandosi perennemente in ritardo negli studi prenotati dalla casa discografica; tornato a New York, venne a sapere dalla Capitol che l’etichetta non sapeva bene cosa farsene di quell’album di «rock and roll chanson» (come lo definì Alex Halberstadt, il biografo di Doc Pomus), enigmatico e così lontano dalla new wave tanto da decidere di lasciarlo a prendere polvere negli archivi. Lui non la prese affatto bene («Quel disco era la mia Notte stellata e quella decisione mi spezzò il cuore»), ma come spesso sarebbe accaduto in seguito fu la vecchia Europa a tendergli una mano: Maxine Schmidt della EMI Paris decise di stamparlo e distribuirlo comunque nel Vecchio Continente, costringendo la Capitol a fare marcia indietro dopo avere riscontrato le buone cifre di vendita sul mercato import.

Il chitarrista Louis X. Erlanger e Willy DeVille in concerto

Era comunque la fine di un periodo, i titoli di coda sulla prima fase di carriera, il 1° sogno di Willy che si infrangeva contro la realtà. Sarebbe successo altre volte, prima di quel 6 agosto del 2009 che lo portò via per sempre: dopo Demasiado Corazón e la cover mariachi di Hey Joe; le immancabili sigarette e le rose lanciate dal palco; i concerti e gli album memorabili; le tragedie della vita e le droghe che gli consumavano la mente e gli mangiavano il fisico; le mutazioni di un’identità vissuta sempre con gusto teatrale e spettacolare (gitano, pirata, lupo mannaro, pellerossa); le disintossicazioni e le resurrezioni. Restava la sua visione unica e romantica della musica, fuori tempo massimo ma immortale. Restano dischi come Le Chat Bleu, la sua Notte stellata che ancora ci illumina ma che troppi sembrano avere dimenticato.

Mink DeVille, Le Chat Bleu (1980, Capitol)