«Gli anni 80 devono finire! Ora!». Nel 1987 Graham Parker è incazzato, disilluso e determinato a fare di testa sua. Non ne può più di quei suoni pompati, artefatti e standardizzati che sente per radio e su MTV. Il rocker inglese – nato nel quartiere popolare e multietnico di Hackney, zona est di Londra – ha 37 anni e la sua piccola occasione da “next big thing ” della nuova musica britannica ce l’ha avuta anni prima con Squeezing Out Sparks e con The Up Escalator, 4° e 5° album con i Rumour entrati nella Top 20 inglese ma incapaci di fare il salto nel mainstream. Dopo di che media e pubblico del suo Paese hanno cominciato a snobbarlo, s’è costruito un seguito di culto in America e altrove, ma anche lui ha ceduto almeno in parte alle lusinghe del mercato sfornando un tris di dischi zeppi di quei suoni compressi, effettati e riverberati figli del loro tempo.

Ha già pubblicato per (e litigato con) diverse etichette discografiche ma ora sembra che la fortuna si sia ricordata di lui. Si è fatta avanti con un’offerta nientemeno che la Atlantic di Ahmet Ertegun, l’etichetta newyorkese il cui vecchio logo rossonero tante volte ha visto girare sul piatto ascoltando i suoi dischi soul e rhythm & blues preferiti. Quando incontra i funzionari della casa discografica e il boss in persona, però, capisce che nulla è come prima. Lui parla di Ray Charles e di Otis Redding; il Grande Vecchio gli cita come esempio Phil Collins e i White Lion che gli stanno facendo guadagnare una montagna di soldi.

Graham vuole fare 1 disco nudo e crudo, tutto fondato sulla sua voce, sulla sua chitarra acustica e sulla qualità delle canzoni, tenendosi alla larga da tutti quei produttori impiccioni e strabordanti che in studio ti stravolgono ciò che avevi in mente. Ahmet gli risponde che quel che più conta oggi sono il ritmo e il sound della batteria; gli propone anzi di lavorare con Joe Mardin, figlio del leggendario Arif e lui stesso batterista che di quelle sonorità di tendenza è un maestro. Quando Parker, cocciuto, fa ascoltare a Ertegun e al suo team i suoi primi, striminziti demo cogliendone le espressioni attonite, capisce di essersi bruciato ogni chance. Fine della favola.

O almeno così parrebbe. Perché invece Parker, punto nell’orgoglio e sempre più fermo nelle sue convinzioni, scrive altro materiale, trova una casa discografica – la RCA – disposta a dargli carta bianca e confeziona in poco tempo uno dei dischi più belli della sua carriera e degli anni 80: The Mona Lisa’s Sister. Con il fonico Jon Jacobs e il chitarrista Brinsley Schwarz, ex Rumour e come lui veterano del pub rock inglese, si dà appuntamento nei piccoli Lansdowne Studios ubicati in uno scantinato londinese e allora utilizzati soprattutto per realizzare piccole colonne sonore e jingle pubblicitari. Hanno l’atmosfera e le dimensioni giuste per fissare su nastro le tracce base per sola voce, chitarra acustica e batteria (nel disco ai tamburi si avvicendano in 3: Pete Thomas degli Attractions di Elvis Costello, Andy Duncan e soprattutto Terry Williams, già nei Rockpile e con i Dire Straits). Il resto – chitarra elettrica (Schwarz), basso (un altro Rumour, Andrew Bodnar), tastiere (James Hallawell) e seconda voce (Christie Chapman) – arriverà in un secondo momento, giusto per rifinitura e per dare colore ma badando sempre all’essenziale. Il suono resterà spontaneo, diretto, asciutto, smilzo e pungente come il fisico, l’animo e i testi di Parker, poeta del sarcasmo, dei sogni infranti, dell’amarezza e della disillusione romantica con una punta di cinismo e di humour acidulo.

Ci sono le chitarre, e sono lì in primo piano. C’è la voce (splendida, acre, dylaniana ma anche soul: il soul come lo ha vissuto sulla sua pelle e nel cuore un bianco proletario nato nel Surrey e che a 24 anni faceva ancora il benzinaio). E ci sono le canzoni. Canzoni magnifiche. Graham è ispirato, e in un disco estremamente omogeneo dal punto di vista sonoro sa alternare tempi, ritmi, toni, atmosfere. A tenere alta la temperatura ci pensa Don’t Let It Break You Down, l’invito a non piegarsi a un mondo tossico e violento in cui ci sono rivolte per strada e basta avere in mano una penna per fare a pezzi la vita di un uomo “in un paragrafo o due ” (il suo rapporto con la stampa musicale nazionale non è mai stato idilliaco). Ci pensa il ritmo rotolante e incalzante di Under The Mask Of Happiness, ritratto di una coppia in disfacimento che nasconde la sporcizia sotto il tappeto. Ci pensano OK Hyeronimus (la più rock di tutte) e I Dont’ Know, con quella elettrica anni 60 alla Shadows e l’incedere di un 45 giri di Buddy Holly. E il singolo Get Started. Start A Fire Forse l’unica canzone pop ad avere un punto nel titolo»), giocata su un ritmo quasi disco-funky con il basso in primo piano e un testo in cui nessuna donna trova motivo per sorridere: non la sorella di Mona Lisa del titolo, non Marilyn Monroe abbandonata da John Kennedy, non una moderna Giovanna d’Arco, ognuna vittima del suo tempo e delle circostanze.

Graham, che i ritmi in levare della Giamaica li ha sempre frequentati, li rispolvera per The Girl Isn’t Ready ma il meglio lo riserva alle ballate, una più bella dell’altra. La sua preferita è Back In Time, penetrante (anche musicalmente) riflessione sul crescere in cui con la sua acustica si prende anche un assolo. La mia Success, che sembra la postilla al suo incontro infausto con la Atlantic e la parabola condensata in 3 minuti e 48 secondi del music business: la storia di chi rifiuta il conformismo e il compromesso e finisce solo mentre gli altri sfoggiano sorrisi sfavillanti e si danno grandi pacche sulle spalle. La storia di chi in vita sua «ha avuto qualche problema a vendere dischi», come ha detto di lui il regista Judd Apatow che nel 2012 lo ha voluto a fare la parte di se stesso nella commedia This Is 40.

La voce è meravigliosamente amara, la melodia struggente e rinfrancante al tempo stesso, l’andamento e il fraseggio Sixties quelli di un classico di Sam Cooke: fa perfettamente il paio, così, con una impeccabile cover di 1 dei più grandi classici del leggendario soul man americano, Cupid. Ma non è che siano da meno Blue Highways, un inno disincantato alle strade blu in cui, come nel romanzo di William Least-Heat Moon, “alberga la vera America ”, o un altro numero soul spettacolare come I’m Just Your Man (sono solo il tuo uomo, spiega un disincantato Parker all’amata: non una “pagina della storia ”, né un eroe senza macchia o “il più grande mistero mai raccontato ”). Graham ha fatto centro, stavolta non ne ha sbagliata una.

Piccolo corollario, e rivalsa con solito risvolto agrodolce: presentato con un’irriverente copertina (la sorella di Mona Lisa con occhiali scuri e sigaretta in mano è lui) il disco avrà un discreto successo e porterà Parker a esibirsi in sale più grandi di quelle a cui si era abituato negli ultimi anni («Riempii anche un locale di Detroit: non veniva mai a vedermi nessuno, a Detroit»), inducendo persino i critici musicali inglesi a rivedere il loro giudizio. Una sera, al Troubadour di Los Angeles, apre per lui Jewel, una giovane cantautrice canadese di cui tutti parlano e che si presenta in scena soltanto con una chitarra acustica. Si aprirà una guerra tra major per scritturarla e la spunterà la Atlantic: sono passati meno di 2 anni ma Ertegun ha fiutato la nuova direzione e s’è rimangiato la parola. Parker, che già aveva preceduto Elvis Costello e Joe Jackson finendo spesso per essere paragonato a entrambi, ancora una volta era arrivato troppo presto.

Graham Parker, The Mona Lisa’s Sister (1988, RCA)