Garland Jeffreys è stato, ed è, un perfetto testimonial del crogiolo di razze newyorkese. Leggete le sue parole: «Negli anni 50 e 60 Sheepshead Bay, a Brooklyn, era l’incarnazione del melting pot urbano. Di sicuro io ero il prodotto di una fusione, un mix di nero, bianco e portoricano con una debole traccia di Cherokee». Poi ascoltate la sua musica: in particolare un disco come Escape Artist, il suo capolavoro con una bella foto in bianco e nero di Anton Corbijn in copertina, pubblicato nel 1981 dalla Epic dopo oltre 10 anni trascorsi a girovagare fra altre case discografiche, la Vanguard, l’Atlantic e l’A&M.

Il grande successo, con la parziale eccezione (in Europa, non negli Stati Uniti) del singolo Matador nel 1979, lo ha sempre eluso, ma la sua musica ha graffiato il cuore di tanti innamorati del suono meticcio e di quella New York buia, sporca, romantica e pericolosa che oggi non esiste più. Lì, ai Power Station nel quartiere di Hell’s Kitchen a Mid Manhattan, il maturo Garland (già 38enne) fissa su nastro i pezzi del disco guidato e assistito da un ancora giovane ma già scafato produttore come Bob Clearmountain. «Tutte le canzoni presero vita con energia come fossero delle persone, delle scene di vita vissuta», ricorda l’artista nelle note della ristampa del disco, sottolineando che anche le sue parti vocali vennero registrate in presa diretta conservando il sapore autentico del “qui e ora ”.

Erano tempi in cui anche con artisti come lui le major discografiche erano disposte ad avere pazienza e a investire grandi budget, circondandolo dei migliori musicisti in circolazione negli Usa ma anche in Inghilterra. Come se su un campo da baseball i suoi amati New York Mets potessero schierare la formazione dei suoi sogni: i fratelli Brecker, Michael al sax tenore e Randy alla tromba; Larry Fast ai synth e Jimmy Maelen alle percussioni, che avevano suonato o ancora suonavano con Peter Gabriel; G.E Smith (allora chitarrista di Hall & Oates) e Adrian Belew, che dalle sue sei corde sapeva estrarre anche i suoni di una cornamusa scozzese. Ma soprattutto la sezione ritmica dei Rumour di Graham Parker, Andrew Bodnar e Steve Goulding; e 2 pilastri della E Street Band di Bruce Springsteen come Danny Federici e Roy Bittan, all’organo e al pianoforte.

Così quando parte Modern Lovers, sembra proprio di ascoltare una versione made in Usa dei primi dischi di Parker o di Elvis Costello, con lo stesso beat nervoso da pub rock, le melodie concise e immediate e l’urgenza febbrile tipica di quegli anni. E quando Bittan introduce R.O.C.K. con un maestoso fraseggio di piano si prova un brivido, mentre la testa torna ai momenti in cui, pochi anni prima, si sono ascoltate per la prima volta Racing In The Street o Point Blank. Poi entrano le chitarre elettriche, il basso, la batteria e prende forma una musica sanguigna, elettrica, vitale, ottimista: una migliore colonna sonora non potrebbe esserci per un testo che racconta l’eccitazione per quel rock and roll che “sta spazzando la nazione ” e che per i ragazzi di strada come lui rappresenta l’agognata via di fuga (“Mi ha salvato da un fato/peggiore della morte ”).

I versi che pubblica sul retrocopertina spiegano il titolo e il senso del disco: Garland vuole sfuggire alla paura, agli stupri, all’isolamento, alla tossicodipendenza, all’eleganza affettata, ai ladri e ai delinquenti, alla solitudine, al suo passato, persino a Brooklyn per trovare rifugio nella sua arte, oltre che nella musica con cui è cresciuto, che gli ha risvegliato i sensi e la coscienza, che gli ha fatto capire di essere vivo. Non è un caso che scelga di rifare (e di pubblicare come singolo) 96 Tears, la hit garage punk di ? and the Mysterians che lo aveva stregato nel 1966 quando aveva 23 anni e percepiva di fronte a lui un mondo da esplorare e da conquistare. La restituisce simile a com’era allora, con la sua bella voce roca “da Frankie Lymon educato al college”, secondo una definizione di Time; e quello stesso riff insistente e serpentino di organo (un Farfisa, o un Vox Continental come quello di Frank Rodriguez?) conservandone la purezza, l’innocenza e l’insolenza giovanile.

Prima e dopo quel classico da Nuggets, in Escape Artist c’è il rock retromodernista di Ghost Of A Chance e di Mystery Kids, una canzone a saliscendi che rallenta e poi riaccelera aumentando di volume e ricordando i Mink DeVille dell’epoca, fra coretti doo wop e una West Side Story contemporanea in cui prendono vita le figure del piccolo angelo di Laslow Street, Marcellino Casanova; e della povera Cinderella, che per sé non vede alcun futuro; di Crazy Michael che bazzica Jefferson Street e di Johnny con il suo unico braccio. Tutti ragazzi misteriosi intrappolati in un mondo crudele e apparentemente senza sbocchi. È la musica di un rock and roll adult che dalla stanza del suo hotel parigino coltiva ricordi nostalgici e agrodolci di una sua vecchia fiamma (True Confessions) e che nella new wave di Innocent si professa senza colpa davanti a una giuria di nomi famosi, David Johansen e Nona Hendryx che contribuiscono ai cori insieme a Lou Reed, il vecchio amico conosciuto ai tempi dell’università.

La fisarmonica di Federici colora di douce France e di atmosfera da boulevard parigino Jump Jump, dove Jeffreys professa il suo amore per Victor Hugo e I miserabili; per Van Gogh, Monet e Cezanne; per la Venere di Milo e per tutti i “Rimbaud del rock and roll ”. I ritmi in levare di Christine e la saltellante Graveyard Rock (che con il contributo del toasting e del controcanto del giamaicano Big Youth racconta lo scanzonato funerale di un ubriacone ) ricordano un altro amore imperituro di Garland, pazzo per il reggae e per il dub protagonisti di Escapades, l’Ep incluso nella prima stampa dell’Lp, fra una morbida ed esultante Lover’s Walk e 2 brani registrati a Londra con il produttore Dennis Bovell di origini barbadiane : con la sua incitazione a riconoscere la propria forza e le proprie debolezze e ad aprire il cuore all’amore, la fiatistica We The People si appoggia a una musica soffice e fluttuante; al contrario di Miami Beach, una pulsante e asciutta cronaca tra i riverberi del dub in cui facendo da controcanto a Jeffreys il grande poeta e attivista Linton Kwesi Johnson sciorina implacabile le cifre, i danni materiali, i morti e i feriti di una sanguinosa rivolta scoppiata nel maggio del 1980 nelle strade della città della Florida dopo l’assoluzione di 4 poliziotti bianchi che avevano pestato a morte un motociclista nero privo di licenza di guida.

Completava l’extended play una diversa, vibrante e imperdibile versione di Christine, rallentata a tempo di ballad: il vestito giusto per un’altra sgualcita storia romantica ambientata fra New York e Parigi, sbocciata sotto i migliori auspici e naufragata a causa della presenza di un 3° incomodo. Solo Jeffreys avrebbe saputo raccontarla così, con quella passione e con quel disincanto: lui, che nel documentario Garland Jeffreys: The King Of In Between girato dalla moglie Claire e presentato in anteprima lo scorso novembre al festival cinematografico DOC NYC, viene lodato da tanti illustri colleghi come 1 dei migliori autori e interpreti della sua generazione (Springsteen non ci pensa un attimo a collocarlo a fianco di Bob Dylan e di Neil Young).

Essere il re della terra di mezzo, uno spazio né bianco né nero, ha nuociuto alla sua carriera ma lo ha reso un artista unico e inconfondibile, un grande cantore della sua città, un rappresentante credibile di tutti coloro che non si ritengono rappresentati. Soprattutto in Escape Artist , il disco perfetto di un newyorkese di Brooklyn che ha imparato a conoscere bene anche il resto del mondo.

Garland Jeffreys, Escape Artist (1981, Epic)