C’è un brano – Rene, neanche uno dei migliori – che forse meglio degli altri spiega il senso di Ogdens’ Nut Gone Flake, il 4° album degli Small Faces che arrivò nei negozi il 24 maggio 1968. Inizia come uno scanzonato music hall d’antan e si trasforma in una jam acida e sballata con un’armonica a bocca blues e una chitarra distorta. È la porta d’ingresso in una nuova dimensione: i piccoli (di statura) e indomiti eroi della scena mod londinese che passano dal bianco e nero (bianco di pelle e nero di anima) dei primi dischi, al mondo a colori del post Sgt. Pepper.

Un altro segnale inequivocabile si ascolta all’inizio del disco, con quella title track strumentale, magmatica e schiumante che rielabora un vecchio e dimenticato singolo del 65, I’ve Got Mine, trasformandolo in una mini sinfonia rock con tanto di sezione d’archi diretta dal celebre David McCallum Sr. (papà dell’altrettanto famoso “biondino ” della serie televisiva Organizzazione U.N.C.L.E.). Sembra quasi di ascoltare gli Who in transizione da My Generation a The Who Sell Out; e forse non è un caso che proprio qualche mese prima, in un disastroso tour australiano condiviso con loro, da Pete Townshend & C. i 4 abbiano preso un metaforico schiaffo in faccia capendo che è arrivato il momento di cambiare marcia e di mettersi velocemente al passo con i tempi.

Ronnie Lane, Steve Marriott, Kenney Jones e Ian McLagan con il produttore discografico Andrew Loog Oldham

È un incipit intrigante e coinvolgente per uno sfilacciato ma brillantissimo concept album a metà, che in una seconda facciata inframmezzata dagli interventi nonsense del comico Stanley Urwin nel suo linguaggio inventato, racconta la storia allegorica e bizzarra di un personaggio che si mette alla ricerca della metà mancante della Luna, finendo per scoprire attraverso i suoi incontri straordinari – una mosca gigante, un pazzo eremita – il senso della vita. È un viaggio stupefacente che anticipa quello di Tommy, che nel brano intitolato al suo protagonista (Happiness Stan) costeggia il pop baroque aprendosi con il suono di un’arpa; in The Hungry Intruder intreccia su un tappeto volante flauto, archi e chitarra acustica; fra i cambi di tempo, i riff di organo e la chitarra ritmica di The Journey, si lancia in un viaggio spaziotemporale e in Mad John si concede alle suggestioni della ballata folk rock, prima di chiudersi con la marcetta infantile di HappyDaysToysTown.

È il fatidico 68, la Swinging London è viva e vegeta e tutto è ancora possibile. La musica è come un organismo in mutazione, anche perché al banco di regia c’è un produttore e fonico geniale come Glyn Johns: uno che, spiegò molti anni dopo il tastierista Ian McLagan, «sapeva in che modo fare muovere un brano, come se al suo interno ci fosse dell’aria. Sapeva come fare risuonare forte tutte le note importanti». Quelle del suo Hammond, che lascia dietro di sé strascichi e scie colorate nel pastiche psichedelico di Long Agos And Worlds Apart. Quelle di una sezione ritmica che ormai non ha quasi più nulla da invidiare a quella composta da John Entwistle e Keith Moon: il basso melodico e primattore di Ronnie Lane, la turbinosa batteria di Kenny Jones suonata senza piatti fra le rullate di The Journey. Quelle dense e pregnanti, prodotte dal leader Steve Marriott, voce impetuosa da soul man afroamericano che qui imbraccia volentieri l’acustica ma intanto indurisce i toni della chitarra elettrica. L’emulo di Steve Cropper e di Booker T. & The MG’s che adesso – ancora parole di McLagan – vuole essere «Hendrix, Pete Townshend e Muddy Waters» sfidando sul loro stesso campo i Cream, la Jimi Hendrix Experience e i Grand Funk Railroad, anche se Lane non è da meno: se Steve mette in tavola la gagliarda Rollin’ Over sfornando un riff simile a quello di Foxy Lady, Ronnie gli risponde evocando Wild Thing in Song Of A Baker, il suo peana al Sufismo Riorientato di Meher Baba che in quegli stessi anni illumina anche il percorso spirituale dell’amico fraterno Townshend.

Sono lo yin e lo yang degli Small Faces: Lane il serafico pacificatore che ha un effetto calmante sui compagni, Marriott la dinamo inesauribile che non rifugge lo scontro a viso aperto. Ha pronto in canna un altro grande colpo, dopo All Or Nothing e Tin Soldier. Un’altra dedica appassionata alla tanto desiderata e finalmente sposata modella Jenny Rylance, la ex di Rod Stewart che lavorava nella boutique Quorum a Kings Road: uscita appena 5 giorni prima su Ogdens’ Nut Gone Flake, Afterglow (Of Your Love) viene suonata al loro matrimonio ed è un fantastico soul rock con venature psichedeliche che meriterebbe di diventare una grande hitSolo Steve poteva scrivere una bellissima canzone d’amore su come ci si sente a fumarsi una sigaretta dopo avere fatto sesso!», commenterà al giornalista Mark Paytress il futuro batterista degli Humble Pie, Jerry Shirley).

E invece il destino ha di nuovo in serbo un perfido scherzetto: a catapultare (per ben 5 settimane) in testa alle classifiche inglesi quell’album pubblicato dall’etichetta più trendy del momento (la Immediate di Tony Calder e dell’ex manager dei Rolling Stones, Andrew Loog Oldham), inizialmente confezionato in una costosissima scatola rotonda di latta che replica quella del famoso tabacco Ogden’s Nut-brown Flake, è invece Lazy Sunday, scelta dai discografici come singolo di lancio all’insaputa (e con grande incazzatura) di tutti i membri del gruppo. È una storia che si ripete: 2 anni prima, nel 1966, Sha-La-La-La-Lee li aveva trasformati loro malgrado in teen idols da copertina con una scia di adoranti e urlanti ragazzine al seguito. Mentre stavolta a rimescolare le carte è un altro di quegli ironici vaudeville senza pretese che Marriott, ex enfant prodige del teatro londinese, interpreta alla perfezione con quel suo pronunciato accento cockney da East End londinese: spiegherà, sprezzante, di averla scritta in 5 minuti seduto sul water a casa della zia mentre la band la inciderà per rilassarsi una sera a fine session.

Steve non ci sta, vuole essere preso sul serio e il ruolo della pop star non gli si addice. Pianta tutti in asso nella maniera che gli è più consona, con un gran colpo di scena. Il 31 dicembre 1968, durante il veglione di fine anno all’Alexandra Palace, invita a esibirsi con la band Alexis Korner, ma quando il padrino del blues britannico sale sul palco lui lo abbandona per non farvi più ritorno. Vuole nel gruppo il chitarrista degli Herd, Peter Frampton, ma gli altri non sono d’accordo: è la fine degli Small Faces e l’inizio degli Humble Pie, jeans e magliette al posto degli abiti costosi e sgargianti di Carnaby Street, un sound più duro, spiccio e chitarristico che meglio rispecchia lo spirito più pragmatico e meno idealista degli anni 70.

Small Faces, Ogdens’ Nut Gone Flake (1968, Immediate)