(omaggio a 2 grandi del racconto breve: Raymond Carver e Charles Bukowski).

«Sei felice?».
Stavo là appena da un quarto d’ora, forse meno, seduto sopra una bella panchina del Parco Formentano a guardare in faccia la grande vasca circolare che buttava fuori tanta acqua da certi ugelli aperti sul fondo. La trovavo bella in quel momento. No. Accogliente mi pare più corretto definirla, almeno dal punto di vista del mio momentaneo stato d’animo.
Stavo là seduto in contemplazione pensando ai casi miei che, allo stato dell’arte, mi parevano abbastanza acidi quando una voce femminile, piuttosto roca, arrivò a interrompere il fluente corso delle mie elucubrazioni come farebbe un colpaccio di tosse. Inaspettato, violento, sgradevole.
Ci misi qualche secondo a volgere il capo verso qualcuno che mi si era seduto accanto, pronto a sussurrargli di andare a scassare altrove. Si trattava di qualcuna, una donna. Era una bruna truccata da fare impressione, capelli nerissimi, con pantaloni scuri, attillati, ingolfata dentro un giubbotto giallo che ne nascondeva le forme.
La guardai. Non dissi nulla. Anche lei mi guardò. Aveva due occhi neri e grandi e dannatamente tristi. Ci vedevo dentro una vera, corposa disperazione. Continuai a tacere, a guardarle gli occhi. Capivo che chiedeva aiuto. Lo chiedeva forse con la sfrontatezza di un’ultima volta. Però io non sapevo che cosa risponderle, finché dissi:
«Che cosa credi che sia la felicità?».
Lo dissi così, tanto per prendere tempo.
«È la vita», rispose breve. Guardava l’acqua che sembrava ballare davanti a noi.
«La felicità è molto più breve della vita. E discontinua. Va e viene. Improvvisa, veloce. Talmente veloce che neanche te ne accorgi. E allora, che rapporto ha con la vita, che è quasi sempre lunga, dolorosa e cattiva?».
«Appunto», aggiunse fissandomi. «Quando ti arriva vivi e quando ti accorgi di vivere se n’è già andata. Tu sei credente?».
«Non mi hanno dato l’opportunità di esserlo. E tu?».
«Io sì, credo in un dio crudele che mi ha creato, per copiare grandi parole altrui».
«Ti sei salvata in corner», aggiunsi dentro un mezzo sorriso.
«Nonostante tutto io credo ancora a quel dio cattivo», riprese.
«Tanto meglio per te. O peggio, dipende dai gusti», aggiunsi guardando l’acqua che saltellava nel suo folle balletto fottendosene delle nostre cazzate. A quel punto pensai che il momento di alzare i tacchi e filarmela da quella svampita che mi si era scaricata addosso a filosofare fosse arrivato. Mi alzai.
«Te ne vai?», chiese dentro un tono di voce appena allarmato, ma triste e ancora disperato come l’occhiata che mi aveva regalato il primo momento. Presi il passo contro una forza che me lo frenava, il passo. Intendevo sgranchirmi le gambe trottando fino alla Chiesa del Suffragio.
«Arrivederci», mormorai.
«Ne dubito», rispose.
Un paio di secondo dopo la retromarcia, forse tre, mi aggredì le orecchie uno splash di acqua sfondata. Mi volsi, ma avevo capito prima di guardare. Quella svitata stava annaspando nella vasca. Ci si era buttata dentro, magari per finirla fuori. Però l’acqua era alta meno di sessanta centimetri. Non c’era verso di sprofondare e annegarci, con tutta la buona volontà. Nonostante ciò quella scema continuava a sbattere le braccia verso l’alto senza versi, senza parole. Magari era al corrente del fatto che oggi si usa fare del teatro per ottenere qualcosa.
Mi lanciai indietro, onestamente mio malgrado. Tuttavia un impulso più forte mi spingeva verso la svitata. Saltai oltre il bordo di cemento e piombai nell’acqua. Era fredda. Avevo dimenticato che si era di novembre, all’interno di un parco pubblico cosparso di erbetta striminzita colorata di brina.
Va bene. La branco sotto le ascelle e cerco di tirarla in piedi. E lei, la squilibrata, si afferra con forza alle mie gambe tirandomi tutto dentro i sessanta centimetri di quel gelido liquido. Insufficiente a farmi annegare, bastante tuttavia a riempirmi d’acqua fin sopra i capelli.
Riuscii infine a tirarla fuori. Scivolammo entrambi oltre l’orlo e crollammo al suolo. Nel frattempo era arrivata gente. Ci stavano tutti attorno senza fare un cazzo. Finalmente una più sveglia del gruppo tirò fuori il cellulare e compose un numero.
«Venite!», strillò. «Alla vasca del Parco Formentano. Due sono finiti in acqua. Fa freddo!».
Girò la testa e mi guardò come si guarda un mezzo ciucco.
«Adesso vengono i vigili», disse. Poi se ne andò.
«Grazie», le dissi dietro le spalle.
Guardai la donna accanto a me. Aveva perso metà del trucco e l’altra metà le scivolava via come cera da un manichino riscaldato.
Sentivo un freddo boia nelle ossa e nei muscoli e sperai nell’arrivo dei vigili in tempo utile a non trovarmi assiderato. Arrivarono con sirena, lampeggianti, coperte e un thermos che sperai pieno di caffè bollente.
La squilibrata che mi sedeva accanto mi parve che sorridesse. Pensai che era davvero sbullonata. Aveva dei lineamenti molto marcati sotto il trucco che se n’era scappato via. I capelli le si erano stortati sulla testa quasi a sembrare una parrucca mal messa.
I vigili, che erano in due ci coprirono con delle coperte e ci riempirono di un caffè davvero bollente. Poi ci caricarono in macchina, dove gli raccontai l’accaduto. La donna inzuppata me l’avevano piazzata di fianco. La guardai di nuovo in faccia. Pareva che sorridesse ai due vigili mentre raccontava la storia con le stesse parole che avevo usato io. Con la faccia senza trucco, i capelli senza parrucca, per via che se l’era tolta, e quell’espressione da rimbambita faceva quasi pena.
Ci accompagnarono a casa. Toccò prima a me perché abitavo a due passi.
Giunti sotto casa i vigili ci dissero che si sarebbero fatti vivi per completare il rapporto. Ci dissero anche che le coperte le avrebbero volute indietro. Stavo per scendere quando la svampita mi toccò un braccio e disse piano:
«Grazie, io mi chiamo Ernesto».
Mi bloccai. Mi girai a guardarla bene in faccia. Non era una donna! Anche i vigili sembravano storditi.
«Vai a cagare!», risposi e scesi dalla vettura.
L’uomo scivolò lesto dietro di me. Fui subito in allarme.
«Non temere», disse, «abito anch’io a due passi. Ora me ne vado. Prima, però, hai diritto a una spiegazione…».
Quella faccia da clown allo strucco, quei pochi capelli sbilenchi sotto la parrucca sbilenca che ora stringeva in una mano, quegli occhi accesi da un male profondo mi fermarono davanti al portone. Anche i vigili erano scesi fermandosi a due passi da noi.
«Si vuole essere amati…», cominciò l’uomo Ernesto con una bella voce piana. «In mancanza di questo, temuti. In mancanza di questo, disprezzati. In mancanza di questo, detestati. Si vuole suscitare negli altri un tipo di sentimento, non importa quale, ma che contenga dell’amore, poco o tanto che sia. L’animo rabbrividisce davanti al vuoto di amore, che può anche condurre a una qualche forma di auto eliminazione: qualcosa che somiglia a ciò che ti è capitato per colpa mia. Scusami …, anche voi scusatemi…».
Scappò via mollando la coperta tra le mani di un attonito vigile urbano.

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, segnaliamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016) e Un coltello di ceramica verde (2018).

Foto: © Eleonora Tarantino 2018