Avevo preso il tram. Il nove, che è una linea sempre piena di facce da spendere poco. Andavo a trovare una vecchia zia, l’ultima parente che mi restava dopo che mia madre se l’era portata via un brutto male alcuni anni addietro.
Stavo seduto da una decina di minuti, ma alla fermata in arrivo avrei dovuto scendere. A sinistra sedeva una vecchia signora dall’aspetto modesto, però dignitoso, come molti poveri cui è rimasto, nonostante tutto, un briciolo di orgoglio. Era chiusa dentro un cappotto giallo. Proprio chiusa, nel senso che la palandrana gialla che la copriva scendeva, dal collo, a ingolfarla fino ai piedi. I quali sembravano finti, a somiglianza di certe protesi, per via delle grosse calze beige e delle scarpette tipo mocassino che li contenevano. Identiche, nel colore, e appaiate al suolo con precisione millimetrica, immobili, tanto da sembrare incollate.
Stortai alla donna un paio di occhiate incuriosite. Lei non mostrò il minimo segno di sentirsi osservata. Ricordava proprio un vecchio manichino, di quelli che si abbandonano in fondo ai magazzini a coprirsi di polvere e di vago mistero. C’era tuttavia in lei qualcosa che non capivo, fuori posto, che mi portava la mente a volare altrove.
Alla mia destra premeva un ragazzotto sui diciott’anni, corpulento, con jeans strappati in più punti e un giubbotto nero che saliva fino al collo a confondersi in una macchia altrettanto nera, parte di un tatuaggio visibile solo in parte. Aveva il cranio rasato con cura, luminoso come un ginocchio sudato. Ai piedi indossava certi stivali lunghi con la punta rivolta all’insù, simili ai calzari degli elfi. Sedeva a cosce larghe. Tanto che mi costringeva a strizzarmi alla maniera della saracca in barile, come si dice, per non sentirmelo gravare addosso. Guardava fisso davanti a sé, ma non sembrava osservare alcunché. Teneva le labbra leggermente aperte. Tutto sommato, anche se non gli vedevo il volto per intero, esibiva un‘espressione piuttosto scema.
Volsi il capo di nuovo a sinistra. Dalla vecchina veniva un lieve odore di naftalina, stemperato dalla presenza di umori diversi. Minuscoli residui a forma di chiavi che mi aprirono la porta del ricordo verso un lontano passato, qualcosa somigliante alla casa di ringhiera della mia infanzia.
La donnina pareva assorta in profondi pensieri. La osservai meglio. La pelle del suo viso appariva smorta, tenuta su da un reticolo di rughe che formavano numerosi quadratini tutti uguali. Capelli bianchi, ondulati, a posto. Mi piaceva guardarla. Non le avevo ancora scorto gli occhi perché li teneva bassi, sopra un piccolo grembo ingabbiato nelle pieghe del cappotto giallo.
Gettai un’occhiata in testa alla vettura. C’era un tale laggiù. Un grosso uomo involtato in un giaccone liso che pareva un sacco scaricato male. Un giaccone di pelle marrone. Puzzava. Ne percepivo il tanfo dentro la testa, non certo nel naso. Nonostante fosse lontano ero sicuro che puzzava. Sentore di vecchi, ripetuti sudori. L’omone stava mezzo intrufolato nell’abitacolo del conducente. Gli penzolava sopra il capo. Parlava. Magari si trattava di un collega fuori servizio.
Mi alzai. Insieme a me si mosse anche il giovanotto che avevo avuto di fianco. Mi precedette verso l’uscita anteriore. Sentii la vecchina muoversi alle mie spalle. Scendevano entrambi alla mia fermata con un paio di altri passeggeri.
Quel tale accanto al conducente impegnava oltre metà della portiera. Pensai all’ingorgo che si sarebbe formato di lì a poco.
Uno scoppio di aria compressa spaccò il silenzio. La portiera si spalancò. Uno alla volta i passeggeri scesero a terra, malamente girati in costa per evitare urti contro l’uomo del giaccone. Scese il giovanotto nero. Sfregò l’addome sul dorso di quel tale, che non fece un verso. Giunse il mio turno di scendere. Mi volsi e cedetti il passo alla vecchia signora. Sorrise senza guardarmi e scese compostamente, stretta com’era.
Mi colse un improvviso prurito alla nuca, fastidioso. Tirai dentro del fiato e assunsi un’aria svagata. Nel senso che alzai la fronte a guardare il cielo di sopra che era tutto grigio. Quindi scesi e davanti al vuoto che mi prendeva mormorai che la discesa si sarebbe fatta più spedita se:
«Lei si togliesse dalla portiera».
Toccai il suolo. E subito mi prese uno spasmo allo stomaco. Levai lo sguardo e incontrai il volto dell’uomo col giaccone. Anche lui mi fissava, gli occhi sfessurati come al riparo di un sole che non era presente. Sotto il giaccone aperto indossava una camicia di tessuto pesante a quadri bianchi e rossi. Dall’apertura sul petto usciva un crocefisso di metallo lungo almeno quattro centimetri, infilato in una collana a maglia grossa anch’essa di metallo. L’uomo aveva le guance gonfie e due borse livide sotto gli occhi. Dopo qualche secondo emise un suono catarroso, quasi un grugnito:
«Vai a farti fottere!».
Torse il capo al conducente a condividere con lui un piccolo sorriso.
Prese a battermi forte il cuore col fiato che faticava a fluire di bocca. Credo che stessi per muovermi verso di lui, forse per ribattere alle sue parole o forse per reagire più duramente, allorché una stretta al braccio sinistro mi bloccò all’inizio di una qualsiasi azione. Girai la testa.
La vecchia signora col cappotto giallo mi stava quasi attaccata. Era davvero minuta, ma lo sguardo che aveva incatenato al mio possedeva una forza potente, ineludibile. Emise poche parole appena percepibili:
«Non ti curar di lui, ma guarda e passa. Ti farebbe a pezzi. Conviene?».
Rimasi fermo sul marciapiede mentre il tram prendeva il largo. Poi volsi il capo a sinistra. Non c’era nessuno accanto a me. Mi chiesi stralunato chi mai fosse quella donnina. Ripresi il passo. Intanto sorridevo tra me e me mentre pensavo a Virgilio sotto un cappotto giallo intervenuto a salvarmi dalle grinfie di quell’energumeno.
Girai l’angolo della strada dove abitava la zia, quando rividi la vecchina dentro il suo cappotto giallo che entrava nel portone al quale anch’io ero diretto. Cominciai a percepire una tesa curiosità e affrettai il moto. Varcai la soglia del portone e feci appena in tempo a scorgere un lembo di tessuto giallo che scompariva nell’ascensore in salita. Trepilavo. Al segnale tornato verde premetti subito il pulsante di chiamata. Montai. Salii. Al secondo piano, attraverso la grata dell’ascensore in fermata, scorsi di nuovo quel lembo giallo che scompariva oltre la porta dell’appartamento della zia. A quel punto schizzai fuori dell’ascensore e corsi alla porta. Suonai. Come aprì la porta, la zia mi abbracciò con trasporto. Quindi si fece da parte e mi invitò ad entrare.
«Dov’è la vecchina con il cappotto giallo che è entrata un istante fa?», le chiesi quasi gridando.
«Quale vecchina?».
Mi scappò l’occhio a sinistra verso la parete del corridoio, quasi cercando qualcosa. C’era un quadretto appeso che non avevo mai visto. Raffigurava una snella donnina vestita di giallo. Un’ombra lieve salì dalle nebbie del ricordo: la svelta figurina di mia madre.
Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, segnaliamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016) e Un coltello di ceramica verde (2018).