Accadde una sera di tanti anni fa. Saranno state almeno le dieci. Vagavo stranito per casa. Trasudavo noia da ogni poro. Per la precisione, era la fase terminale di un torrido giorno di luglio. Sentivo crescere dentro un vivace nervosismo. Non ne capivo il perché. Comunque così andava. Mi spostavo di stanza in stanza. Aprivo e chiudevo porte. Aprivo e chiudevo armadi e cassetti. Aprivo e chiudevo il frigorifero. Roba da chiodi!
Fui al cassettone della camera da letto. Tirai i pomelli con le mani. Il cassetto venne dolcemente. Sbirciai all’interno. La scorsi subito. La scatola di legno brunito. Rammentai lo zio, la sua curiosa passione per il tiro a segno, la bella pistola ad aria compressa che lui teneva nell’armadietto all’interno del suo chiosco della Esso. Diceva che gli serviva per legittima difesa in caso di aggressioni. Lui? Infatti non l’aveva mai usata per difendersi da aggressioni, che si sappia.
La sciolsi dal fustagno che l’avvolgeva. La serrai nella destra. Colmava la mano, precisa come una protesi. Era pesante. Cominciai a passarla da una mano all’altra. Poi liberai il piano del mobile. La smontai. La rimontai. Si componeva di pochi pezzi. Entravano uno nell’altro con uno scatto metallico che mi elettrizzava. Quindi aprii la scatoletta dei piumini, luminosa nel suo ottone dal colore giallo antico. Ne estrassi un piumino col ciuffo rosso. Lo pastrugnai tra indice e pollice. Era gradevole sentirne la morbidezza.
Il nervosismo se n’era andato, sostituito da una sorta di tesa attesa, direi. Infilai il piumino in sede. Mi prese la voglia di premere il grilletto. Puntai l’arma attorno alla ricerca di un bersaglio qualsiasi. Mirai allo stipite della porta. Premetti il grilletto.
“Plop!“.
Il rinculo mi piacque come se tenessi in mano una cosa viva. Che so, un passero, magari. Andai allo stipite della porta. Il piumino era sprofondato nel legno fino in fondo. All’esterno si allargava il suo ciuffo di rossi peluzzi. Ricordo che mi fece una stranissima impressione. Perturbante. Ricordo altresì che si trattò di un aggettivo che usavo per la prima volta, che non credevo nemmeno di conoscere. Era un participio presente, per l’esattezza, non un aggettivo. Sembrava un sedere insanguinato. Il ciuffo di rossi peluzzi, non il participio presente, intendiamoci. Scoppiai a ridere. Provavo anche una specie di vergogna al pensiero di quel sedere insanguinato. Ridevo di un riso faticato, difficile, ma non riuscivo a frenarmi. Posai l’arma e il riso cadde di bocca. Mi vergognavo come un ladro. Ripresi l’arma. Trovai un cartone pesante in sgabuzzino. Lo appesi a una porta. Sparai per ore. Bucai decine di sederi insanguinati. Da allora è pratica quotidiana. Un toccasana per i miei nervi. La visione dei sederi insanguinati non tornò più.
Alcuni giorni fa, piena notte, forse le tre. Un baccano assordante mi svegliò di soprassalto. Veniva dalla strada di sotto. Voci, urla, risa, tonfi. Scesi dal letto mezzo imbesuito. Barcollai alla finestra. L’aprii e mi chinai. Strusciai le ginocchia sul balcone. L’aria era frizzante. Mi snebbiò subito la mente. Di sotto le luci dei lampioni rischiaravano i prati. Sul vialetto interno sostava una vettura con i fari accesi. Il fatto mi innervosì. Un’auto parcheggiata sull’area giochi dei bambini. Intorno ad essa razzolavano alcune prostitute. Grufolavano come maialesse sopra il pastone. Donne giovani, apparentemente, e scurissime. Vestite, si fa per dire, in modo più che succinto. Ce n’era una che mostrava addirittura le natiche mentre affondava il capo nel finestrino dell’auto. Dalla vettura usciva una musica violenta e ossessiva. Spaccava l’aria fresca della notte.
Le prostitute strillavano come pappagalli eccitati. Accennavano volgari passi di danza. Ridevano tutte insieme. In verità sghignazzavano. Scorgevo il bianco dei denti contro la pelle scura, il bianco degli occhi spalancati e sentii di odiarle nella loro svergognata naturalità. Le guardavo muoversi nell’infernale musica che saliva a confondere i battiti del mio cuore. Occorse loro ben poco per scatenarmi in testa una violenta emicrania. Serrai gli occhi. Nel buio della cecità scorgevo i rossi peluzzi dei miei piumini che lampeggiavano a tempo con l’assordante musica che scappava fuori dall’auto. Le avrei volentieri bucate con cento piumini. Cento rossi piumini che spaccavano cento volte quelle carni senza vergogna.
Come per incanto me la trovai in mano, fresca e corposa. Una specie di miracolo, un invito venuto da chissà dove a compiere un gesto risolutivo. Non mi ero neanche accorto di essere rientrato, di averla estratta dal cassetto, di averla caricata. E di trovarmela ora in mano pronta all’uso. D’un tratto pensai all’effetto che il mio piumino avrebbe prodotto incontrando le carni di quelle donne. Praticamente nessun effetto, pensai. Mirai a quella con le natiche scoperte. Teneva il capo ancora infilato dentro il finestrino. Dalla mia postazione al bersaglio correvano dieci metri o poco più in diagonale discendente. Il piumino sarebbe arrivato indebolito, ne ero certo. Contratto dietro i gerani del balcone presi la mira. Trattenni il fiato un solo istante. Fuoco! L’immagine di un altro me stesso in tenuta mimetica acquattato nella giungla mi empì la testa.
Udii il solito plop. La prostituta dalle chiappe scoperte lanciò un urlo da scimmia impazzita. Strappò la testa dal finestrino dell’auto. Torse il busto e piegò il capo. Tastò con la mano il suo capace culone. Poi strusciò le dita una sull’altra come se qualcosa di appiccicoso le imbrattasse. Pensai che il piumino, inavvertitamente estratto dalla carne, era caduto nell’erba. Si ritoccò la natica. Strusciò di nuovo le dita. Infine scrollò le spalle e si immerse una volta ancora nel finestrino dell’auto. Immaginai che la considerasse una puntura d’insetto, quei grossi insetti che infestavano la sua zona di origine.
Urli, schiamazzi e musica ripresero. In verità non si erano mai fermati. La mia attenzione, in quel breve frangente, era stata concentrata in altri impegni. Rinculai e rientrai in casa. Posai la pistola e guadagnai il letto. Mi sentivo affaticato, ma tranquillo. Caddi nel sonno in pochi secondi.
Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, segnaliamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016) e Un coltello di ceramica verde (2018).