Il 25 aprile 1911 a Torino il cielo è velato ma se Dio vuole il rigido inverno di quell’anno, con temperature quasi sempre sotto lo zero e un gelo costante, ormai è solo un ricordo.
La primavera finalmente è arrivata e ha trovato una città in festa.
Fervono infatti gli ultimi preparativi dell’Esposizione Universale, allestita per festeggiare il cinquantesimo compleanno della patria unita e celebrare la sua crescita economica, sociale e culturale.
“L’Illustrazione Italiana” descrive con queste parole l’atmosfera della città:
“Torino era veramente giubilante in quei giorni, l’austera città così infervorata d’entusiasmo, animata da una così diffusa e irrequieta onda di vitalità, palpitante di primavera soleggiata, imbandierata per ognuna delle sue centomila finestre come una fantastica nave con i pavesi alzati e spiegati; la nobile città era tutto uno sfarfallìo di colori e di grida”.
Si danno gli ultimi ritocchi ai padiglioni delle regioni italiane e dei ventidue paesi stranieri, enormi edifici costruiti in legno e gesso ai lati del Po, tra il Parco del Valentino e il borgo del Pilonetto, per mostrare al resto del mondo bellezze, prodotti e scoperte.
Emilio Salgari abitava lì, al Pilonetto, sulla sponda destra del fiume, dove la città distende le sue ultime propaggini.
A lui dell’Esposizione Universale non importava nulla e l’atmosfera frizzante e quasi gioiosa della città lo lasciava del tutto indifferente. Di Grissinopoli poi, come chiamava l’ex capitale del Regno, gli importava ancora meno.
Le stagioni gli passavano accanto senza che nemmeno se ne accorgesse; inverno o primavera per lui era uguale: i suoi doveri lo legavano comunque al tavolino malfermo della sua stanza sul quale tutti i giorni riempiva fogli e fogli di avventure immaginarie.
Della vita stessa non gli importava più niente.
E la mattina di quel martedì si infila nella tasca della giacca il suo rasoio ed esce di casa, poco prima delle otto, per andare a prendere il tram, quello solito, quello che prende quando deve andare in centro, alla Biblioteca Civica, per fare le ricerche necessarie a completare i suoi libri.
La sera prima aveva impetuosamente scritto tre lettere, che aveva lasciato sul tavolo della cucina prima di uscire.
Una era indirizzata ai figli, teneramente amati:
“Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600, che incasserete dalla signora Nusshaumer. Vi accludo qui il suo indirizzo. Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre. Vado a morire nella Valle di San Martino, presso il luogo ove quando abitavamo in via Guastalla andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a raccogliere i fiori”.
Un’altra era indirizzata agli editori:
“A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semiseria ed anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dato pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”.
La terza ai direttori dei giornali torinesi:
“Vinto dai dispiaceri d’ogni sorta, ridotto alla miseria malgrado l’enorme mole di lavoro, con la moglie pazza all’ospedale, alla quale non posso pagare la pensione, mi sopprimo. Conto milioni d’ammiratori in ogni parte dell’Europa e anche nell’America. Li prego, signori direttori, di aprire una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli e poter passare pensione a mia moglie finchè rimarrà all’ospedale. Col mio nome dovevo attendermi altra fortuna ed altra sorte. Certo che loro, signori direttori, non mancheranno di fare aiutare i miei disgraziati figli e mia moglie. Coi più sentiti ringraziamenti”
Due dei suoi figli, Romero ed Omar, gli corrono dietro, colti da un oscuro presentimento. Lo raggiungono quando è già sulla piattaforma del tram. Lui gli fa cenno di tornare a casa. Il tram si muove e loro cominciano a correre.
“Papà! Papà!” – gridano.
Lui alza il bastone da passeggio:
“A casa, a casa a studiare”.
Quella mattina non doveva fare ricerche in biblioteca. Salgari scende dopo appena una fermata e si incammina per il sentiero che, attraversando il bosco, porta alla collina.
Quando arriva sul luogo dei fiori, un fossato che è già nicchia di morti, depone a terra, ben piegata, la giacchetta; sopra vi appoggia il cappello, il bastone da passeggio e la cravatta appena slacciata. Poi si sdraia, si sbottona il gilet e la camicia e con il rasoio si apre orrendamente prima il ventre poi la gola.
Doveva ancora compiere quarantanove anni.
Il cadavere venne ritrovato solo la sera, da una lavandaia spintasì fin lassù per raccogliere legna. Il delegato di Polizia arrivò quasi subito e accertò le orribili ferite che la violenza di Salgari aveva provocato su se stesso: da uno squarcio di nove centimetri uscivano gli intestini, che pendevano srotolati all’esterno.
Frugandogli le tasche per poterlo identificare rinvenne la ricevuta del pacco di manoscritti inviati qualche giorno prima all’editore Bemporad di Firenze. Era firmata Cav. Emilio Salgari. Non ebbe più dubbi: era lui, il celebre scrittore.
Le lettere scritte la sera prima hanno sempre lasciato pensare che il gesto estremo sia stato dettato dallo sfruttamento del suo lavoro messo in atto negli anni da avidi editori.
Ma si tratta di una idea sbagliata. La verità è un’altra, e per trovarla bisogna guardare altrove
Innanzi tutto alla salute della moglie. Ida Peruzzi, che lui chiamò per tutta la vita Aida, era stata ricoverata in manicomio pochi giorni prima, il 19 aprile. Era stato il medico di famiglia, il dottor Arminio Herr, a compilare il referto: “Affetta da mania furiosa con tendenza ad atti impulsivi che la rendono pericolosa a sé e agli altri, per cui è urgente il suo ricovero”. Non avendo Salgari soldi sufficienti per pagare la retta di una casa di cura, Herr si vide costretto a farla internare in un manicomio.
Prima di quel giorno, e sempre più spesso, la donna era stata assalita da improvvisi scatti d’ira e ribellione, mostrando una forza patologica e quasi soprannaturale mandando in frantumi grossi bicchieri di vetro con il solo premere del palmo della mano.
Questa circostanza sarebbe sufficiente a spiegare di per sè il tragico gesto di Salgari. Egli aveva perso all’improvviso la sua amata Aida, dopo diciannove anni di matrimonio e quattro figli; aveva perso l’unica donna della sua vita, quella che teneva in mano il timone della famiglia, quella che assecondava le sue fantasie e sosteneva il suo impegno letterario con cieca fiducia e amore incondizionato.
Ma c’è dell’altro.
In verità l’istinto suicida scorreva subdolamente nel sangue di Emilio Salgari, frutto avvelenato di un’eredità genetica che prima o poi gli avrebbe presentato il conto.
Si erano già tolti la vita infatti Luigi, suo padre, e Giovanni, lo zio.
L’esosità degli editori infine non corrisponde al vero.
Con l’editore più importante, proprio l’ultimo in ordine di tempo e cioè Bemporad, Salgari aveva sottoscritto un contratto, nel 1908, che prevedeva un compenso di 8.000 lire l’anno per tre romanzi. Lo stesso Salgari aveva imposto queste condizioni contrattuali: lui non voleva percentuali sulle vendite ma preferiva riscuotere i soldi pattuiti al momento della consegna del manoscritto, non pensarci più e passare al successivo lavoro: come si dice, pochi maledetti e subito.
Nel 1910, l’anno prima della sua morte, Salgari percepì 8.595 lire.
Che poi, a ben guardare, erano anche di più, se si considera che guadagnava qualcosa sia con i diritti di traduzione delle sue opere all’estero che pubblicando novelle su una miriade di giornali e giornaletti.
Ma ammettiamo pure che siano state 8.595 lire. L’importo non è certo esiguo se pensiamo che in quegli anni il direttore dell’Azienda Tramvie Municipali di Torino percepiva un salario di 7.500 lire, quindi meno di quello che Salgari guadagnava con la sua attività di scrittore.
Ma lui era fatto così. Viveva di bugie, e ci credeva a tal punto da arrivare a percepirle come la sola e unica realtà.
Su una in particolare fu incrollabile, convinto e ossessivo per tutta la vita: il suo avventuroso passato di marinaio.
Di sé scrive:
“Avevo quindici anni quando abbandonai la casa paterna per farmi marinaio; io non avevo mai navigato, non avevo mai veduto l’ampio mare, non avevo mai respirato le sue brezze né provato i suoi capricci. Sin dalla più tenera età, io avevo una passione bizzarra, incomprensibile, cioè quella di farmi marinaio, di avere un giorno una nave da comandare, un equipaggio sotto di me, scorrere gli ampi mari in cerca di avventure, di burrasche, di vere emozioni. Mi ricordo che da giovanissimo parlavo dei marinai come della gente più audace e più robusta del mondo, mi ricordo che nei libri disegnavo centinaia di brigantini colle vele sciolte al vento, disegnavo burrasche, naufragi, marinai, ancore e per di più migliaia di carte geografiche…”.
A ventun anni spedisce una lettera a Milano, indirizzandola al direttore del giornale illustrato “La Valigia”, ribadendo la sua fasulla biografia:
“Ill.mo Signore, sapendo quanto sia diffuso il di lei giornale La Valigia e come vengono avidamente lette le avventure di mare e di terra, io, giovanotto sconosciuto a Milano ma di qualche nome a Verona, antico cadetto della marina mercantile, che ho viaggiato il mondo, assai studiato e assai provato, le mando questo mio scritto onde vedesse, se lo ritenesse degno, di pubblicarlo sul citato giornale… Trattasi di un naufragio sulle coste della Nuova Guinea, e di commoventi episodi, abilmente descritti per quanto compete ad un uomo di mare…”.
Stessa cosa a venticinque anni, alla morte della madre:
“Mi pare… che mi apparisse, e mi tornarono alla mente le carezze che ella mi prodigava quand’ero bambino, e mi parve di sentire sulle labbra i baci suoi, quei baci ardenti ch’ella mi dava quando, uscito vivo dalle tempeste del mare, dopo lunghi e lunghi mesi di ansie tornavo tra le sue braccia; e mi parve di udire quella voce angosciosa che mi diceva: non lasciarmi mai più…”.
Anche a Ida non risparmia le sue frottole:
“Nato in una notte di tempesta, vissuto tra le tempeste degli oceani ove l’anima diventa selvaggia…la mia vita doveva essere tempestosa per necessità. Ma un giorno ho veduto voi… E non so, da giorni sento per la seconda volta in vita mia una strana fiamma invadermi questo mio cuore che non credevo più accessibile ad alcuna reale passione dopo una terribile disillusione provata nella prima gioventù, che ho trascinata, terribile martirio, nelle mie corse attraverso i mari per lunghi anni…”.
Perfino a quarantasette anni, scrittore ormai affermato, e quindi non obbligato ad inventarsi biografie immaginarie per attirare su di sé l’attenzione di pubblico e addetti culturali, intervistato da un inviato del giornale Don Marzio di Napoli, non abbandona la sua narrazione:
“Ho studiato poco e ho viaggiato molto, arrivando fino alle Stretto di Bering. A Verona, dove sono nato, ho fatto le scuole tecniche. Poi, siccome mio padre aveva altre idee, scagliai il calamaio sulla cattedra e andai a Venezia, per studi nautici, e fui dopo tre anni capitano di lungo corso. Avevo una ventina d’anni; era l’82 o l’83. Ho visto il mondo fumando una montagna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in navigazione con una sola breve fermata a Ceylon, perché crivellato dai rosicanti…”.
Nel suo racconto, falso e ossessivo, di vero c’è solo un particolare: la sua frequentazione, a sedici anni, dell’Istituto Nautico di Venezia al fine di ottenere il diploma di Capitano di Gran Cabotaggio. Ma completò solo il primo anno: rimandato in tre materie, Navigazione, Astronomia e Trigonometria, non si presentò agli esami di riparazione del secondo, non terminando pertanto gli studi ed anzi abbandonandoli per sempre.
Eppure per tutta la vita firmerà così le sue lettere, Capitano Emilio Salgari, oppure, nelle circostanze particolarmente importanti, Cavaliere, dopo che, nel 1897, su proposta della Regina Margherita, Umberto I° gli conferì l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia.
Quello che sappiamo è che a diciotto anni si imbarca come mozzo sul mercantile Italia Una, che navigava lungo la rotta Venezia-Brindisi. E qui iniziano e finiscono le sue esperienze di mare.
Salgari quindi non è mai stato Capitano, non ha mai affrontato avventure e navigazioni, tifoni e bonacce li ha solo immaginati e gli oceani li ha visti solo sulle cartine geografiche. Le sue avventure di mare si sono limitate a tre mesi estivi di placida navigazione lungo l’Adriatico, come mozzo.
Ma difende contro tutto e contro tutti la sua vita immaginaria, la sola che ritiene reale, e non esita a sfidare coloro che ne mettono in dubbio l’autenticità. Ed è disposto perfino a morire per difendere quelle bugie.
Così, a ventitrè anni, giovane redattore de L’Arena, uno dei giornali di Verona, sfida a duello un tale Biasioli, giornalista dell’Adige, per aver osato scrivere che lui non era mai stato un Capitano, ma che poteva essere stato tutt’al più un mozzo.
Salgari si difende: “Io sono Capitano Marittimo di Gran Cabotaggio e se non ho potuto fino ad ora darmi al mare, gli è perché non ho ancora raggiunto l’età voluta dalla legge per comandare un bastimento”.
Nessuno dei due ritratta ciò che ha scritto e si arriva ad incrociare le lame. Il duello dura pochissimo. Salgari al primo assalto ferisce l’avversario alla tempia sinistra con un “mulinello di testa”, uno dei suoi colpi preferiti, Biasioli finisce in ospedale e i padrini mettono fine alla contesa con piena soddisfazione del Capitano. Ma poiché i duelli erano vietati egli viene condannato dal Pretore a pagare 30 lire di ammenda e a sei giorni di prigione nel carcere di Peschiera.
Il suo grande desiderio era quello di vivere nell’avventura; lo potè soddisfare solo nella sua fantasmagorica immaginazione. Ma immaginazione e realtà finirono alla fine per sovrapporsi e determinarono il suo smarrimento.
Attraverso i suoi personaggi Salgari cercò di vivere la vita che avrebbe voluto. E si identificò con loro, ricreando in casa la stessa atmosfera dei suoi libri. Realtà e finzione si confusero pericolosamente nella sua mente fino a fondersi in un magma indistinto.
Chiama la moglie Aida, chiama i figli Fatima, Nadir, Romero e Omar, nomi che aveva già dato ad alcuni personaggi dei suoi libri. Per lui la fantasia della sua immaginazione era la realtà che viveva tutti i giorni.
Ricorda Omar, l’ultimo nato:
“Gli eroi, i personaggi, le creature che popolavano i libri di mio padre abitavano con noi; li sentivamo accanto a noi attorno al desco, durante i nostri sogni, e i nostri giochi. E anche mio padre li sentiva, una notte mia madre lo udì mormorare: Yanez sta male! Yanez sta male! Yanez infatti era lui stesso, era il suo personaggio prediletto, nel quale si identificava, quello che come lui fumava cento sigarette al giorno”.
Sul tavolino zoppicante sul quale scrive si affastellano pugnali, statuette di divinità indiane, collane di conchiglie, cristalli di minerali, pistole ad acciarino, un mappamondo e una bussola.
Alle pareti appende fucili e archibugi, un arco con la freccia, uno scudo rotondo di cuoio, varie funi, una fiocina, canne e reti da pesca, foglie di palma rinsecchite.
La stanza è piccola, e così addobbata Salgari immagina di essere nella cabina di una nave, quella che lui stesso comanda; e il tavolino malfermo sul quale scrive traballa per via del beccheggio, e a quello non si può porre rimedio.
Scrive tutti i giorni: alla mattina presto, prima di pranzo, e il pomeriggio, dalle cinque alle otto. Lo fa con un’unica penna, una cannuccia con il pennino in fondo, legato con lo spago, intinta nell’inchiostro bluastro, che si fabbrica da solo diluendo con l’acqua le bacche del suo giardino.
Scrive rapissimo, nervosamente, senza rileggere. Ma per farlo deve aiutarsi con cento sigarette al giorno e abbondanti dosi di marsala.
Il creatore delle più fantastiche avventure in ogni parte del mondo, da Borneo all’India, dal Polo Nord all’Antartide, dalla Siberia al deserto del Sahara, dall’Egitto al Mar dei Caraibi, dalla praterie americane alla Cina, non ha mai avuto in casa un libro di viaggio, di esplorazione o di scienza né un atlante o un dizionario.
Se erano necessarie delle ricerche le andava a fare in biblioteca. Indossava allora il suo soprabito giallo, corto e chiuso fino alla gola, prendeva il suo bastone da passeggio e se era estate la paglietta; poi si accendeva l’immancabile sigaretta e si avviava verso la fermata del tram.
Per il resto inventava, perché aveva una fantasia prodigiosa.
Arrivò a Torino da Verona sul finire del 1893, quando aveva trentun anni, consigliato da un ex insegnante, l’abate Caliari, secondo il quale in questa città sarebbe stato possibile vivere di scrittura, collaborando ad una serie di pubblicazioni per ragazzi di proprietà dell’editore Speirani.
A Torino non si ambientò mai; la città gli rimase per sempre estranea e cambiò spesso casa. Rimase affezionato a quella di corso Casale 278, perchè lambiva il Po: non era il suo mare ma era pur sempre acqua, acqua navigabile, e perchè aveva un piccolo giardino, dove poteva dare ricovero al suo serraglio. Ebbe infatti una scimmia, un gatto (ma arrivò ad averne diciassette), un cane, una gallina, una tartaruga, uno scoiattolo, un’oca. A tutti diede un nome, nell’ordine; Peperita, Tigrotto, Ninì, Lampo (la tartaruga!), Madama Sempronia.
Tra figli e animali era una colonia numerosa e colorata e insieme potevano forse essere felici, se i disturbi della sua mente non avessero continuato a lavorare nell’ombra e ad aprire silenziosamente ferite ad un certo punto non più rimarginabili.
Salgari aveva già tentato il suicidio nel 1909, due anni prima del gesto definitivo. A rivelarcelo è sempre il medico di famiglia, il dottor Arminio Heer: “Conobbi Emilio Salgari in principio del 1909, quando egli abitava in un modestissimo appartamento di poche camere a pianterreno della casa sita in corso Casale 278, dirimpetto al dazio della nuova barriera di Casale; vi abitava colla moglie e quattro figliuoli, ancora in tenera età ed a carico. Mi onorava della sua fiducia come medico di famiglia e sovente io ero chiamato a prestare l’opera mia o per lui o per la famiglia. Eppure Emilio Salgari, così gioviale, così socievole dissimulava l’interno affanno dell’animo suo e meditava il suicidio. Tentò una prima volta di suicidarsi nel suo alloggio di corso Casale 278, lasciandosi cadere colla metà sinistra del torace su una spada acuminata; fortunatamente il tentativo andò a vuoto perché l’arma strisciando sotto le pareti molli non penetrò in cavità toracica, per cui, chiamato d’urgenza, potei dichiararlo fuori pericolo. La povera moglie che lo adorava e non l’abbandonava mai era corsa in tempo ed era merito suo se questo primo tentativo era andato a vuoto”.
Salgari si trasferì poi in corso Casale 205, in tre stanze al primo piano. L’affitto era meno caro ma perse il giardino e con esso il suo festoso serraglio.
Questa fu la sua ultima casa. Da qui si incamminò quella tragica mattina del 25 aprile 1911.
L’autopsìa venne eseguita il 27 aprile all’Istituto Universitario del Valentino dal Professor Mario Carrara, genero dello psichiatra Cesare Lombroso.
Tra gli studenti che assistevano alla perizia necroscopica c’era anche il futuro scrittore Salvator Gotta, che ricorda così quello straziante episodio: “…dopo che il carrello funebre fu spinto in mezzo alla sala, il professore ci ordinò di alzarci in piedi e ci rivelò che il suicida dal ventre squarciato era Emilio Salgari, lo scrittore, l’educatore dei nostri sogni adolescenti. Quegli che noi avevamo tanto pensato e amato, baldo, audace, bello, forte come i mille eroi generosi e felici di conquista sul mare, alti sui gorghi delle più fantasiose avventure, noi lo vedemmo nudo, sanguinolento, vecchio, miserabile come una povera bestia assassinata e abbandonata alle coltella dei sezionatori. È stato questo il contrasto, l’angoscia più stridente che ho provato nella mia vita, fors’anche lo spavento più forte: poiché mi accingevo a scrivere dei libri”.
Ne sarebbe stato deluso anche se lo avesse visto da vivo. Salgari, che scrive di eroi belli e tenebrosi, che si identificava con Yanez, affascinante e carismatico in verità era tutt’altro che bello: piccolo di statura, superava appena il metro e cinquanta, era magro e aveva le gambe storte.
La morte di Emilio Salgari passò in un silenzio quasi assoluto.
Di lui non scrissero i vati della letteratura del tempo: né i torinesi Gozzano e De Amicis né Carducci, Verga, Pascoli o D’Annunzio. Nessuno.
Nessuna autorità fu presente al funerale, celebrato a spese del comune, né personaggi illustri. Eppure a Torino in quei giorni, per l’Esposizione Universale, erano arrivati il Re, che pure gli aveva conferito la Croce di Gran Cavaliere, la Regina, che pure l’aveva sollecitata, il Presidente del Consiglio Giolitti, ambasciatori, principi, duchi, uomini politici, personaggi delle lettere e del giornalismo. Tutti disertarono il funerale del grande scrittore. Si presentarono solo tanti ragazzi, commossi e trepidanti.
Riporta La Stampa del 29 aprile 1911, giorno del funerale: “C’era ieri, poco dopo le 16, all’angolo di Via Donizetti e Via Esposizione, dinanzi all’ingresso degli istituti anatomici, tutta una folla, una grande folla di giovani: studenti e studentesse, con i loro berretti goliardici e colla bandiera; alunni dell’Istituto Tecnico col distintivo e il vessillo; ragazzi delle scuole normali e allievi e allieve della Scuola Media di Commercio, pur essi con la bandiera; uno stuolo di giovinetti e di fanciulle delle scuole tecniche ed elementari; altri ragazzi del popolo; piccoli artigiani fuggiti dalle officine colle mani ancora nere e il volto affannato, che avevano voluto dare l’estremo saluto all’autore dei libri tanto cari, letti avidamente, la domenica mattina, nella biblioteca municipale. Molti avevano i libri scolastici sotto al braccio, altri la cartella, quasi tutti dei fiori; una fanciulla bionda, che aveva le lagrime agli occhi, stringeva al seno un gruppo di libri, sulla testata dei quali si leggeva il nome dello scrittore morto”.
Il destino che si accanì così ferocemente contro Emilio Salgari non risparmiò nemmeno la sua disgraziata famiglia.
Aida non uscì più dal manicomio. Vi rimase per undici anni, poi un cancro pose fine alla sua vita tormentata. Nel 1915 Fatima morì di tubercolosi, ed aveva solo ventitrè anni. Nel 1931 Romero, Guardia Regia a Torino, eroe della Grande Guerra, due medaglie d’argento al valore, accecato dalla gelosia dopo aver tentato di uccidere con la pistola la moglie, il figlio e la cognata, fuggì a casa di amici dove, bendatosi, si gettò da una finestra. Cinque anni dopo Nadir, quarantunenne, ex ufficiale libico, sette ferite, decorazioni a iosa, si sfondò il cranio cadendo con la motocicletta. Toccò infine ad Omar, invalido di guerra, seguire la stessa tragica sorte del padre e del fratello, lanciandosi, il 5 novembre del 1963, dal secondo piano della casa dove viveva.
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Torinese, classe 1962, ex calciatore professionista e ora avvocato, Teodoro Lorenzo ha pubblicato Campus Marie Curie, De vita beata e Pensieri di carta ( Edizioni Progetto Cultura ). 30 racconti – ognuno dei quali relativo a una disciplina sportiva – li ha invece raccolti nel libro Le formiche rosse, disponibile su Amazon.