Quando aveva 21 anni, Ray LaMontagne vide esibirsi dal vivo in un piccolo club di Minneapolis Townes Van Zandt, cantore texano dei perdenti, della solitudine e delle inquietudini esistenziali che pochi anni dopo morì consumato da alcol e droghe lasciandosi alle spalle una scia di formidabili e poetiche canzoni. Aveva 52 anni, oggi Ray ne ha 1 in meno ma non ha mai dimenticato quella frase contenuta in To Live Is To Fly: I posti in cui sei stato sono morti e sepolti. Tutto ciò che ti resta è la strada che hai percorso per arrivarci ”. Per esprimere lo stato d’animo e la condizione esistenziale descritti con quelle poche parole, ha spiegato con eccessiva modestia, a lui sono serviti 9 brani: quelli contenuti nel suo nuovo album Long Way Home, un disco in cui «ogni canzone in un modo o nell’altro celebra quel viaggio. I languidi giorni della giovinezza e dell’innocenza. Le innumerevoli battaglie della vita adulta, alcune vinte ma più spesso perse. È stata una strada lunga e difficile, ma non ne cambierei neanche un minuto».

Nel disco di minuti ce ne sono poco più di 30, in omaggio a quella stringatezza che è tornata di moda con il ritorno in auge del vinile, ma non c’è da lamentarsene troppo perché nessun momento è sprecato. Registrato in gran parte su 1 banco 16 piste collocato nel salotto della fattoria dell’800 circondata da 104 acri di terreno in cui per 16 anni (prima di venderla nel dicembre scorso per la bella cifra di 4.500.000 dollari) ha abitato con la moglie e poetessa Sarah A. Sousa e con i loro 2 figli; e pubblicato su una etichetta indipendente, Liula Records, che il musicista ha creato dopo avere sciolto i legami con la major RCA, Long Way Home è infatti un magnifico disco che profuma d’artigianato vecchia maniera. Di albe e di tramonti campestri, di cieli e di prati infiniti, di legno e di acciaio come l’intelaiatura e le corde delle sue chitarre; richiamando in ogni solco, come sottolineano le note di presentazione, il clima magico della “folk explosion degli anni 70 ”.

È il pregiato manufatto di una cottage industry, un’impresa a conduzione familiare che oggi sembra avere bisogno di pochi input esterni: fra essi, i contributi del polistrumentista e coproduttore Seth Kauffman (Angel Olsen, Lana Del Rey) e del batterista Ariel Bernstein, presso i cui home studios hanno avuto luogo altre session; e le voci old style di Laura Rogers e di sua sorella Lydia Slagle alias le Secret Sisters, che nell’ambito dell’Americana contemporanea rappresentano una versione aggiornata e al femminile degli Everly Brothers.

Ray LaMontagne

Le si ascolta nei primi 3 pezzi in scaletta e con particolare evidenza nell’iniziale Step Into Your Power, un invito esplicito all’azione e alla fiducia in se stessi (“Se lo vuoi/lo puoi ottenere/non hai altro da fare/che allungare il braccio e afferrarlo”) scandito da un ritmo Southern soul e da una chitarra elettrica che Kauffman suona alla maniera di Steve Cropper quando dispensava licks e fraseggi memorabili nei dischi della Stax di Memphis. È un suono caldo, sexy, robusto e analogico amplificato dalla voce in primissimo piano di Ray: una voce roca, rugosa e stagionata dal retrogusto acre e pastoso e con un’elegante intonazione a metà fra Sam Cooke e Van Morrison. L’arma segreta, e letale, di LaMontagne: giustamente piazzata in primissimo piano nel missaggio, front and center; e a cui è praticamente impossibile restare indifferenti.

Appare subito chiaro che dopo certe sorprendenti divagazioni psichedeliche del passato (in album come Ouroboros, Part Of The Light e l’antecedente e meno convincente Supernova) Ray è davvero tornato a casa e ai suoni del suo 1°, vincente poker di dischi come già lo scarno Monovision aveva preannunciato 4 anni fa. Anche se incide in stereo e non in mono, la sua è una visione d’altri tempi maturata e sedimentata in 20 anni di carriera e perfettamente coerente con i contenuti del disco: a cominciare da I Wouldn’t Change A Thing in cui ribadisce che del suo lungo e spesso difficoltoso percorso artistico e personale non cambierebbe neanche una virgola lasciandosi cullare dalle dolci onde della lap steel di Carl Broemel (My Morning Jacket) e da un pigro incedere che riporta alla stagione d’oro del country rock americano.

Per altri versi elusivo e misterioso («Spero semplicemente di riuscire a mantenere un qualche velo tra me e il mondo: da ragazzo mi piaceva ascoltare Van Morrison e non sapere niente di lui», ha confermato di recente alla rivista Spin), non ha mai nascosto i suoi amori e le sue influenze, LaMontagne; e men che meno si premura di farlo in quest’occasione e in quest’ottica retrospettiva. E così se And They Called Her California già nel titolo evoca la West Coast dei suoi (e nostri) sogni adolescenziali con un’armonica, un ritmo rilassato e una melodia che sembrano presi di peso dall’Harvest di Neil Young; e il delicato fingerpicking acustico di The Way Things Are rammenta il miglior Stephen Stills, gli intrecci folk soul, i timbri caldi dell’organo (suonato dallo stesso Ray) e il fraseggio vocale di Yearning e di My Lady Fair (con i fiati aggiunti di Jacob Rodriguez) portano impressi nella carne e nello spirito il marchio di Van the Man nel suo periodo americano quando, a cavallo fra i 60 e i 70, sfornava capolavori come Astral Weeks, Moondance e Tupelo Honey.

Potrebbe essere individuata come il limite del disco, questa sua stretta osservanza dei canoni e dei suoi modelli di riferimento, non fosse che l’artista originario del New Hampshire ha il talento, la classe, la spontaneità e la naturalezza per farcelo dimenticare sgombrando il campo da ogni dubbio d’affettazione. È la musica giusta per canzoni che sono odi amorose alla compagna di una vita, che raccontano la contemplazione estatica e incantata della Natura (“sotto il mio corpo percepisco la Terra ruotare”), il desiderio di trovare stabilità e di dare un senso alla caducità della vita, di sfuggire ai trip egomaniaci e alle lusinghe della fama in cerca della purezza della verità e di una comunione spirituale (“tesoro, la fama è solo un gioco e un concetto vuoto”… “che si cada o si rimanga in piedi/ognuno di noi avrà sempre l’altro”).

Nell’intermezzo di La De Dum, La De Da, agli arpeggi della chitarra acustica e alle sottili trame in sottofondo gli basta appoggiare un vocalizzo senza testo per intonare una dolce ninna nanna, mentre nel breve e introspettivo strumentale So, Damned, Blue le corde cigolano sotto la pressione delle dita incamminandosi sui sentieri aperti dai pionieri dell’American Primitive come John Fahey e Robbie Basho. Anche senza parole, affiorano il senso della storia e del passato in un breve frammento che fa da prologo alla conclusiva title track, dove sono i flash e i ricordi più antichi e più cari ad affollarsi nella mente. Fra madeleine proustiane e un senso d’accettazione buddhista della realtà, Ray sussurra su 1 sfondo sonoro in cui affiorano anche archi delicati rievocando con un senso di struggente malinconìa la sua infanzia e la sua adolescenza vissute fra il New Hampshire e lo Utah; i lunghi e trasognati pomeriggi estivi trascorsi sdraiato su un prato e con le gambe a penzoloni in un ruscello di montagna raccogliendo noci pecan lungo il tragitto verso casa che attraversava i binari di una ferrovia.

Sembra di rivedere certe sequenze del film Stand By Me di Rob Reiner, mentre LaMontagne snocciola il suo rosario sul tempo perduto rievocando una stagione classica della grande canzone americana, come quando Glen Campbell cantava Jimmy Webb o Harry Nilsson reinterpretava Fred Neil: “Estate, estate/dì addio al muro di cinta del giardino/da casa sento mamma che mi chiama/amico mio, l’inverno arriva per tutti/così come ogni infanzia ha la sua fine”. È un piccolo, meraviglioso carme metafisico e fatalista all’impermanenza delle cose, cantato con la consapevolezza matura di chi di quei vividi ricordi e di quell’innocenza perduta vuole ancora nutrire la sua anima.