L’occasione di parlare di uno dei sodalizi più straordinari della musica popolare americana della seconda metà del 900 – la cui eco si propagò solo flebilmente in Italia – arriva con la pubblicazione di I Am A Lineman For The County, antologia a cura dell’inglese Ace Records che raccoglie in ordine cronologico le 23 canzoni scritte da Jimmy Webb e interpretate da Glen Campbell tra il 1967 e il 1982.

L’inizio virtuale della loro storia – un segno del destino? – risale agli ultimi mesi del 1961 e riguarda un episodio  raccontato spesso da Webb: che un giorno, 15enne impiegato come bracciante in una fattoria della natìa Oklahoma, sente la voce di Campbell e la sua Turn Around, Look At Me diffondersi dalla radiolina di plastica a transistor che ha appeso alla cabina del suo trattore. Il ragazzo si distrae, sterza bruscamente, accelera e conclude con un rovinoso urto la corsa del costoso veicolo (20.000 dollari di allora) dopo avere devastato il bel giardinetto di casa del suo datore di lavoro. Viene licenziato in tronco ma, senza saperlo, trova il suo destino. 6 anni dopo, i 2 s’incontrano sul serio e iniziano a scrivere pagine memorabili del nuovo American Songbook, ai tempi eroici in cui grandi autori alimentavano il repertorio di grandi interpreti in base alla rigida ma redditizia specializzazione di ruolo imposta dal modello del Brill Building newyorkese, appena prima che la grande stagione dei cantautori rimescolasse definitivamente le carte in tavola.

Erano 2 emigrati calati a Los Angeles per coltivare i loro sogni di gloria. Occhiali e capelli lunghi da radical anti sistema, Jimmy arrivava dall’Oklahoma, aveva fatto la gavetta come autore presso la Motown di Detroit e il balzo nel grande business sotto gli auspici del suo mentore Johnny Rivers (con cui si era esibito anche al Monterey Pop Festival). Nato in Arkansas, Glen era invece il perfetto ragazzone americano, “biondo come il sole e solido come una balla di fieno”, destinato per physique du rôle anche a una carriera da attore (Il Grinta, a fianco di John Wayne): eccellente chitarrista, oltre che cantante, arruolato nella leggendaria cricca di session men losangelini Wrecking Crew aveva suonato nei dischi di Frank Sinatra e degli Everly Brothers, di Nat King Cole e di Sammy Davis Jr., di Phil Spector e di Merle Haggard, ma anche di gruppi amati dai giovani come i Monkees, Paul Revere & the Raiders e soprattutto i Beach Boys (con cui era anche andato in tour nel 1964 al posto di un Brian Wilson già alle prese con le sue turbe mentali), prima di raggiungere finalmente il successo da solista con una cover di Gentle On My Mind di John Hartford.

S’incontrarono nel momento giusto, quando la musica “leggera ” si stava trasferendo su un altro piano e osare era possibile, anzi fortemente consigliato. «Mick Jagger cantava che “è il cantante che conta, non la canzone ” e io pensavo esattamente il contrario», ha ricordato qualche anno fa Webb al giornalista di Mojo Dave DiMartino, pur avendo ben compreso che dopo Rubber Soul e Revolver dei Beatles (e dopo Bob Dylan) i tempi stavano cambiando sul serio: anzi, erano già cambiati. Capì subito che rispetto agli altri interpreti di grido delle sue canzoni (i Fifth Dimension di Up, Up And Away, l’attore Richard Harris di MacArthur Park) Campbell aveva nel miele e nel velluto della sua voce un calore, un colore e una misurata emotività che rendevano ancora più memorabili le sue canzoni. Da parte sua, Glen si convinse che Jimmy non aveva nulla da invidiare a Brian Wilson o a Paul McCartney: un autore capace di «prendere in mano del materiale grezzo e di tirarne fuori un ferro di cavallo». Era una star del country, che insieme a Webb avrebbe creato un nuovo genere: un crossover che avrebbe traghettato quella musica tradizionale verso il mainstream e il pop con melodie malinconiche dal respiro cinematografico, testi che erano piccoli romanzi Southern Gothic, arrangiamenti a tutto schermo e partiture complesse che suonavano come sinfonie tascabili da 3 minuti.

Mai come nella straordinaria trilogia di hit singles che inaugurò il loro rapporto professionale. By The Time I Get To Phoenix (1967), incisa 2 anni prima proprio da Rivers e 2 anni dopo da Isaac Hayes in una versione soul/psichedelica di oltre 18 minuti, si snodava come un breve racconto di O. Henry, seguendo gli spostamenti lungo le strade e le highways americane di un uomo che aveva deciso di lasciare una volta per tutte la sua donna con un bigliettino d’addio e che alle diverse ore del giorno immaginava i suoi pensieri e i suoi gesti quotidiani a miglia di distanza (Jimmy non dovette guardare troppo lontano: aveva appena rotto con la compagna Susan Horton). Un anno dopo, l’ispirazione per la ancora più celebre Wichita Lineman (N°1 nelle classifiche country e N°3 nella classifiche pop di Billboard del 1968) che Bob Dylan ha definito la più grande canzone di tutti i tempi, a cui il giornalista inglese Dylan Jones ha dedicato un intero libro e che la Library of Congress americano ha incluso nel National Recording Registry fra le incisioni “culturalmente, storicamente ed esteticamente significative ”, gli venne durante un viaggio in auto fra le pianure del suo Oklahoma vedendo un operaio appeso a un palo della linea telefonica parlare a un auricolare (il pretesto per immaginare una sua conversazione amorosa con una donna e farne un “filosofico” eroe solitario del quotidiano che da quel momento suggestionerà centinaia di artisti compresi i Nomadi, interpreti di una traduzione un po’ goffa intitolata L’auto corre lontano, ma io corro da te). E infine Galveston (1969), che in pieno conflitto vietnamita raccontava la storia struggente di un soldato che nel bel mezzo di una battaglia ricorda nostalgicamente la donna amata e la sua città natale in Texas (“Galveston, oh Galveston”/Sento ancora le onde del tuo mare infrangersi/mentre guardo lampeggiare i cannoni/Lei aveva 21 anni/quando ho lasciato Galveston ”).

3 centri pieni, 3 interpretazioni stellari di Campbell con molti punti in comune fra loro come fossero gli episodi di una saga: canzoni che evocavano luoghi geografici nel cuore degli Stati Uniti, l’Arizona e il New Mexico, l’Oklahoma, il Kansas e il Texas, rispecchiando il dinamismo e l’impulso al movimento, l’inquietudine, la nostalgia e il senso di spaesamento tipici della cultura americana “on the road ”. Canzoni da easy listening eppure audacemente “progressive ”, come ha giustamente sottolineato in un suo scritto il critico americano Stephen Thomas Erlewine. Cantabili ma armonicamente complesse e sofisticate, orecchiabili ma sorprendenti anche in certi scarti testuali (quel “ho bisogno di te più di quanto ti desideri ” che esce dalla bocca del guardafili). Avvolte in orchestrazioni di ampio respiro ma arrangiate anche con strumenti elettrici à la page e con il tocco magico della Wrecking Crew (il basso di Carol Kaye, la batteria di Jim Gordon, la chitarra col tremolo suonata dallo stesso Campbell), con una produzione classico/moderna e geniali invenzioni sonore: i violini orchestrati dal pianista Al De Lory che in Wichita Lineman vibrano come fili elettrici mossi dal vento, mentre un flauto e una tastiera battono un ossessivo “codice Morse ” monotonico imitando gli impulsi che scandiscono una comunicazione telefonica a distanza.

Webb e Campbell realizzeranno insieme altre hit come Honey Come Back e altri capolavori (2 titoli su tutti: la struggente Where’s The Playground Susie, ancora nel 1969, e l’incantevole The Moon Is A Harsh Mistress, punta di diamante dell’album Reunion del 1974 celebre anche nell’interpretazione di Joe Cocker), ma quel magico tris iniziale rimarrà intoccabile e irraggiungibile. Nel 1970, Gil Scott-Heron li citerà assieme ad altri artisti nel suo manifesto politico-musicale The Revolution Will Not Be Televised, sostenendo che non sarebbe stato Webb a scrivere né Campbell a cantare il tema conduttore della rivoluzione in atto nelle strade. Ma a quel punto il ragazzo ribelle dell’Oklahoma che avrebbe messo volentieri delle bombe sotto le auto della polizia e il giovanotto dell’Arkansas che aveva la tessera del partito democratico ma non rinunciava a esibirsi per i repubblicani l’ordine costituito lo avevano già a loro modo sovvertito.