C’è una sequenza in The Song Remains The Same (tornato nelle sale cinematografiche italiane in versione rimasterizzata) che spiega bene l’ambivalenza e la schizofrenìa dei Led Zeppelin e del rock stardom negli anni 70: un postino in bicicletta pedala a velocità sostenuta per le stradine di campagna al confine fra Galles e Inghilterra, raggiunge Robert Plant che con la moglie Maureen si rilassa guardando divertito i suoi 2 bimbi nudi fare il bagno in un gelido torrente e gli consegna una lettera. Anche se è una scena ricostruita a uso di telecamera, Plant lancia alla missiva uno sguardo rassegnato: è ora di rifare le valigie e di tornare al fronte, negli Stati Uniti d’America.

Subito dopo si vedono gli Zeppelin sbarcare dallo Starship all’aeroporto e infilarsi nelle limousine nere che li attendono sulla pista d’atterraggio; poi la macchina da presa inquadra lo skyline di New York e cattura il fermento e l’eccitazione del pubblico in attesa al buio nel catino del Madison Square Garden, dove la band inglese tenne il 27, 28 e 29 luglio 1973  3 concerti da cui sono ricavate le registrazioni dal vivo che fanno da tema conduttore al lungometraggio (138 minuti di durata). Show travolgenti (a dispetto delle critiche che lo stesso Jimmy Page e i suoi compagni, la stampa specializzata mai amica e anche i fan hanno sempre riservato a queste performance: ma se quelle erano serate grigie e nella media, cosa succedeva quando erano ispirati e tutto girava alla perfezione?), frastornanti, magici ed esagerati come tutto quello che circondava il Dirigibile.

Robert Plant e Jimmy Page

La storia è nota. A danneggiare gli esiti artistici della pellicola contribuirono i suoi evidenti deficit di montaggio; le sue vituperate scene fantasy (francamente goffe: materia succulenta per il gruppo parodistico degli Spinal Tap); le incongruenze (soprattutto nell’abbigliamento di Page e John Paul Jones, che indossa anche un’improbabile parrucca nel maldestro tentativo di celare il taglio di capelli nel momento in cui l’azione sul palco viene in parte rifilmata agli Shepperton Studios di Londra per mancanza di girato accettabile); le difficoltà di sincronizzazione fra musica e immagini; l’avvicendamento di 2 registi (Joe Massot e Peter Clifton: il 1°, defenestrato senza complimenti, non verrà invitato neanche alla prima e per assistervi sarà costretto a comprarsi un biglietto dai bagarini) e tutto il contorno di intoppi, liti e incazzature che ne fece ritardare di anni la distribuzione nelle sale: The Song Remains The Same ci arriverà solo nel 1976, quando nell’aria spira il vento del punk e gli Zep appaiono a gran parte del nuovo pubblico del rock e ai giornalisti dei dinosauri anacronistici (anche se l’anno prima era uscito il monumentale Physical Graffiti e quell’anno il granitico Presence). Verrà stroncato e ridicolizzato, in parte ripudiato dal perfezionista Page, da Plant («Se mai girerò un altro film, non sarà questo») e dal manager Peter GrantÈ stato il filmino amatoriale più costoso della storia»).

Eppure… Eppure anche le scene fuori dal palco, nella loro ingenuità, raccontano qualcosa dei protagonisti. Del temibile Grant e del suo braccio destro/road manager Richard Cole, il cui modo gangsteristico di curare gli interessi della band si sublima nella sequenza iniziale della pellicola quando, vestiti come Al Capone e i suoi scagnozzi all’epoca del proibizionismo, sventagliano i loro mitra sui corpi di personaggi malvagi e mostruosi scovati in una bisca clandestina (sognavano forse di farlo nei confronti dei promoter, dei discografici e dei cronisti dell’epoca?).

Di Robert Plant dai riccioli d’oro, che in omaggio alla sua passione per i miti e le leggende celtiche salpa con la bandiera del Galles e s’immagina cavaliere senza macchia e senza paura accorrendo con il suo fedele destriero bianco e la sua Excalibur in salvataggio di una damigella imprigionata nel castello di Raglan (oggi, da uomo arguto qual è, è il primo a sorriderne: qualche anno fa si è presentato sornione negli stessi luoghi – vicini a casa sua – con gli stessi stessi abiti e con la stessa spada per una puntata dello show televisivo A Life On The Road condotto da Brian Johnson, il cantante degli AC/DC).

Di John Bonham, che qui svela il suo lato casalingo da “family man ”  che amava bere birre al pub, giocare a biliardo, accudire il bestiame nella sua fattoria, fare il muratore, correre impavido su furgoncini truccati, moto e dragster coccolando nel tempo libero la moglie e il figlio Jason biondino, giovanissimo e già seduto alla batteria (nel 2007 sarà lui a prendere il posto del padre nell’ultimo concerto della band): l’altro lato, quello della “Bestia ” distruttiva e autodistruttiva in cui spesso si trasformava in tournée complici l’alcol e la nostalgia di casa, resta nascosto e si può solo intuire nella ferocia con cui aggredisce (anche a mani nude) i tamburi durante l’assolo di Moby Dick o con cui a fine concerto percuote il gong fiammeggiante. E di Jimmy Page, che nei dintorni della sua residenza, Boleskine House, appartenuta al famigerato esoterista Aleister Crowley e affacciata sul Loch Ness, s’inerpica su un irto pendìo roccioso per incontrare l’eremita con la lanterna di Led Zeppelin IV sul cui volto si riflettono i suoi tratti somatici fra passato, presente e futuro.

John Bonham

È una storia di sesso, droga e rock and roll, anche se la droga non si vede (se non in certe espressioni estasiate e stupefatte di alcuni giovanissimi membri del pubblico newyorkese e negli occhi stropicciati di Jimmy) e il sesso s’intuisce solo negli attillatissimi e assassini jeans di Plant che non lasciano nulla all’immaginazione (il resto è puro abbigliamento hippie, con una corta blusa sul petto nudo, anelli, monili e catenine). Condita dalla violenza che spesso ha gettato un’ombra nera sulle vicende del gruppo (i pestaggi della polizia nei confronti di ragazzi che hanno ecceduto in intemperanze o si sono intrufolati al concerto senza biglietto, Grant che brutalizza e terrorizza con una mitragliata di “fuck ” un malcapitato promoter reo di avere permesso l’accesso a un rivenditore non autorizzato di poster) e naturalmente da una valanga di soldi (i 200.000 dollari in contanti sottratti dalla cassetta di sicurezza al Drake Hotel e sulla cui destinazione si sono fatte nel tempo mille congetture).

Ma l’aspetto principale, per fortuna, resta il rock and roll. Nel 1973 gli Zeppelin erano in cima al mondo sull’onda del loro formidabile 4° album e di un nuovo disco, Houses Of The Holy, di cui i concerti newyorkesi offrono grandi versioni di The Song Remains The Same, con l’esordio della Gibson a doppio manico di Page, della romantica ballad The Rain Song e della misteriosa, spettrale No Quarter con John Paul Jones gran protagonista alla tastiera (oltre che cavaliere mascherato double face, prima predone e poi buon padre di famiglia, nell’onirica sequenza a lui dedicata) e uno stellare assolo di chitarra purtroppo tagliato per esigenze di montaggio rispetto alla versione integrale uscita contemporaneamente nella colonna sonora su doppio Lp.

È ancora entusiasmante godersi l’interplay fra i 2 colossi della sezione ritmica, Jones al basso e Bonham alla batteria, gli scambi di sorrisi e i loro sguardi d’intesa. O i botta e risposta, gli ammiccamenti, le moine e le pose iconiche dei 2 frontmen scimmiottate da centinaia di epigoni: Plant che alterna suadenti sussurri a urla da vichingo conquistatore (non molto prima di subìre un’operazione alle corde vocali che ne ridurrà per sempre la potenza d’emissione); Page magrissimo, fradicio, elegantissimo nel suo abito nero con i ricami dei suoi segni zodiacali e visibilmente stoned, ma in stato di grazia, che sulle sue Gibson fa correre le dita su scale velocissime reinventando ancora una volta il blues (nella bellissima Since I’ve Been Loving You) dopo avere snocciolato i riff killer di Rock And Roll e di Black Dog e prima di usare l’archetto da violino e il theremin come bacchette magiche nei riti stregoneschi di Dazed And Confused e Whole Lotta Love, mentre Robert lo riporta sulla terra accennando a San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair), l’inno hippie di Scott McKenzie, e a Boogie Chillun di John Lee Hooker.

Quando poi salta fra le 6 e le 12 corde della sua double neck rossa in Stairway To Heaven è l’apoteosi: «Questa è una canzone che parla di speranza», dice Plant al microfono prima d’iniziare a cantarla con aria ieratica e lo charme di un pifferaio magico. Ora non la sente più sua, ma allora era il simbolo perfetto degli Zeppelin, della loro musica tutta luci e ombre, feroce e delicata, mistica e sensuale. Quando gli Zeppelin erano, come diceva Grant, dei «barbari gentili». O come ha scritto Mick Wall in una loro celebre biografia, giganti che camminavano sulla Terra producendo scosse telluriche. Ai tempi in cui, nel bene e nel male, al rock e ai loro dei tutto era consentito e non c’erano confini: né verso gli Inferi, né verso il Paradiso.