«Erano una delle migliori e più cazzute rock band della loro epoca ed erano straordinarie: si scrivevano i pezzi da sé, suonavano come delle fottute indemoniate, erano semplicemente colossali e meravigliose eppure nessuno ne parla mai. Non sono mai state inferiori a nessun loro collega dell’epoca, ma quello semplicemente non era il loro momento». Così David Bowie espresse in un’intervista concessa nel 1999 a Rolling Stone il suo entusiasmo e la sua ammirazione imperitura nei confronti delle Fanny, quartetto rock al femminile di Los Angeles a cui nei primi anni 70 spedì addirittura una lettera dichiarandosi un loro fan sfegatato. Entrò in contatto con loro e per 1 anno circa flirtò con la bassista e cantante Jean Millington, in seguito diventata moglie del suo chitarrista Earl Slick e madre dei suoi 2 figli.
Come la sorella June, cantante e chitarrista, anche lei era nata a Manila da madre filippina e padre ufficiale di Marina statunitense ed era cresciuta in California, a Sacramento. Entrambe avevano cominciato a suonare ai tempi del liceo, fondando poi le Svelts con l’altra chitarrista Addie Lee e con la cantante/percussionista Brie Brandt (nota anche come Brie Howard-Darling), prima di entrare nelle Wild Honey della batterista Alice de Buhr. Con quel nome firmarono un contratto discografico con la Reprise, ingaggiando la cantante e tastierista Nickey Barclay e licenziando la Brandt per volere del celebre produttore Richard Perry (Ringo Starr, Harry Nillson, Carly Simon), intenzionato a farne un quartetto di successo planetario come i Beatles.
Non andò esattamente così, anche se la stoffa c’era ed erano delle pioniere dalla volontà di ferro: 4 ragazze che in un mondo dominato dai maschi suonavano e cantavano con una grinta, una sfacciataggine e un’energia che non aveva nulla da invidiare agli Humble Pie, ai Faces o ai Free una musica che mischiava hard blues e rock and roll, pop bianco e Motown incarnando un modello di emancipazione e di empowerment femminile che avrebbe ispirato in seguito band come le Runaways, le Go-Go’s e le Bangles. Rodate da anni di esibizioni in club minuscoli, bar di quart’ordine, college universitari e basi dell’Aeronautica americana, si erano fatte la pelle dura ed erano ormai affiatatissime quando vennero lanciate come Fanny, nome proprio femminile dalle sfumature maliziose (in slang americano indica le natiche: e infatti sulla copertina del 1° album le musiciste erano riprese di schiena): 3 semidebuttanti di talento, disciplinate e studiose; e una professionista, Nickey, che in quel periodo era impegnata anche come corista nella band di Joe Cocker nei concerti da cui prese forma il leggendario live Mad Dogs & Englishmen. Perry le volle anche come backing band per l’album Barbra Joan Streisand del 1971 e le guidò in studio per i primi 3 dischi, Fanny, Charity Ball e Fanny Hill (registrato ad Abbey Road con l’assistenza dello storico fonico dei Beatles, Geoff Emerick), prima di cedere il timone a Todd Rundgren per il successivo Mother’s Pride.
Quei dischi, rimasterizzati e arricchiti da abbondanti extra, sono stati ora raccolti in The Reprise Years 1970-1973, cofanetto quadruplo a cura della Cherry Red di freschissima pubblicazione, ma a mostrare l’anima più autentica e selvaggia del gruppo è piuttosto il contemporaneo Live On Beat-Club ’71-’72, Lp/Cd su etichetta Real Gone Music che documenta 2 loro partecipazioni dell’epoca all’omonimo e celebre programma televisivo tedesco. Senza trucco e senza inganno, senza sovraincisioni e senza produttori intenti a imbrigliarle e a diluirne l’incendiaria miscela, negli studi televisivi di Brema le Fanny riprodussero l’eccitazione che entusiasmava gli spettatori dei loro concerti confermando quanto Bowie andava dicendo di loro: eccellenti cantanti (tutte e 4) e strumentiste, interpretavano con una verve incontenibile e con un entusiasmo contagioso quelle canzoni in cui confluivano stili e personalità diverse (fra June, che amava anche la musica soft, e Nickey, che disdegnava le sonorità troppo sdolcinate, non correva buon sangue e la tensione era sempre pronta a esplodere).
La scaletta di 10 brani (7 registrati nel 1971 e 3 nel 1972) ne è un campionario perfetto: vi convivono il boogie adrenalinico di Charity Ball, singolo Top 40 suonato con un’intensità e una ruvidezza quasi garage; e l’altrettanto febbrile Place In The Country, che si sintonizzava con gli umori dei soldati americani spediti in Vietnam mescolando rock e rhythm & blues alla maniera dei Cream con brucianti assoli di chitarra e pianoforte; la delicata ballata soul dai toni jazzati Thinking Of You e il sunshine pop di Summer Song, mentre Knock On My Door raccontava una storia d’infedeltà coniugale dal punto di vista dell’amante con una vena melodica e un fraseggio pianistico degno del migliore Elton John o dei Supertramp; e la travolgente Blind Alley, un altro rock/r&b alla nitroglicerina, moltiplicava i cavalli vapore della versione di studio grazie al travolgente drumming di De Buhr («Nickey mi chiese di suonarla come se fossi un treno merci in corsa») e all’esplosiva interpretazione vocale della stessa Barclay, principale songwriter del gruppo.
Con gli amplificatori in overdrive e i volumi al massimo, le Fanny sollevavano un polverone: Alice era un motorino turbocompresso, mentre Nickey picchiava i tasti del pianoforte come Jerry Lee Lewis e Ray Charles generando avvolgenti vortici sonori con il suo Hammond carico di effetti Leslie; lei e Jean, fautrice di dinamici e swinganti fraseggi al basso Fender, erano anche 2 grandi shouter in contrasto con la voce più acuta e delicata di June, che con le sue Gibson produceva sonorità graffianti e “sporche ” il giusto anche quando – sulle orme di Ry Cooder, di Elliott Randall e di amici/ammiratori quali Jeff “Skunk” Baxter degli Steely Dan e Lowell George dei Little Feat (che con loro si intrattenne più volte in jam session) – si prodigava alla slide trascinando in territori decisamente più hard, paludosi e sudisti Ain’t That Peculiar di Marvin Gaye, l’altro successo a 45 giri recuperato dal primissimo repertorio del gruppo e qui aperta da un ritmo latino scandito con woodblock, maracas e tamburello (la stessa tecnica veniva utilizzata con efficacia anche in Borrowed Time, dove Nickey prendeva beffardamente di mira certe aspiranti rock star).
Le cover erano un’altra specialità della casa, e la setlist di questo live ne offre adeguata testimonianza includendo una rauca versione di Hey Bulldog a cui i Beatles stessi autorizzarono l’aggiunta di una strofa; una dirompente e frenetica rivisitazione di Special Care scritta da Stephen Stills per i Buffalo Springfield e qui molto più black dell’originale; e una torrida Young And Dumb (Ike & Tina Turner) in cui June ci dà dentro con gli assoli e con il wah wah mentre un’invasata Jean canta come se fosse posseduta dallo spirito di Janis Joplin. Peccato che nella confezione non sia incluso anche un Dvd, perché vederle in azione e ammirarne le dinamiche interazioni con la ricerca continua di un contatto visivo amplifica ulteriormente l’impatto delle performance (suppliscono i video pubblicati integralmente, pause trucco e soundcheck compresi, su YouTube).
Abituato, qualche anno prima, alle armonie celestiali delle Ronettes, delle Crystals, delle Supremes, delle Vandellas e di altri girl groups comandati a bacchetta da padri padroni quali Phil Spector o Berry Gordy Jr. della Motown, il pubblico mainstream non era probabilmente pronto per 4 tipe così toste e indipendenti. Specie in America (l’Europa riservò loro un’accoglienza migliore) e in un’epoca (i primi 70) in cui, anche in ambito rock, sessismo, razzismo e omofobìa ostacolarono l’ascesa di una band in cui militavano 2 sorelle colored d’origine esotica e una lesbica dichiarata (Alice, ma lo era anche June). «Era troppo presto», come decretò filosoficamente Bowie. Ma non è troppo tardi, oggi, per riscoprirle. Cominciando proprio da queste spettacolari registrazioni con l’argento vivo addosso.