Nonostante il velo, libro reportage sulle donne saudite, è il frutto della mia esperienza di vita dal 2010 al 2013 a Riad, capitale dell’Arabia Saudita. Un’ esperienza totalizzante e preziosa, per il mio interesse di scrittrice, in un paese fino a pochi mesi fa completamente chiuso al turismo (ad eccezione delle visite per musulmani in pellegrinaggio alla Mecca), dove mi è capitato di vivere seguendo il marito che vi era trasferito per lavoro. Come donna sola, infatti, non avrei potuto soggiornare e muovermi liberamente nel paese. Sapevo al mio arrivo che il regno della famiglia Saud era una monarchia assoluta, espressione di una forma di islam dogmatica e ultraconservatrice, il wahhabismo, che ritagliava per la parte femminile un ruolo di totale sottomissione all’uomo. Unico paese al mondo a proibire alle donne (anche straniere) di guidare l’automobile (diritto concesso solo nel 2018), il regno saudita imponeva ad ognuna di loro, ad ogni età, la dipendenza legale da un tutore maschio, il cosiddetto guardiano (padre, marito, fratello…), che aveva su di lei un potere assoluto e la cui autorizzazione era indispensabile per consentirle ogni azione sociale, come sposarsi, viaggiare, studiare, persino essere ricoverata in ospedale. Nel paese, era allora imposta una quasi assoluta segregazione di genere, anche per le straniere; e luoghi pubblici come uffici governativi, banche, ospedali, università, caffè, ristoranti, avevano entrate e aree separate per uomini e donne.

Durante il mio soggiorno ho quindi vissuto in un modo femminile, chiusa in un harem diffuso e oppressivo dove ero obbligata ad indossare l’abaya e il velo neri. E dove dovevo evitare di farmi notare dai membri della polizia religiosa, i mutaween, temutissimi e inflessibili, pronti ad intervenire e incarcerare chiunque non rispettasse le rigide norme religiose e di comportamento. Per muovermi, ho dovuto noleggiare un automobile e assumere un autista, priva com’era allora Riad di mezzi pubblici e taxi affidabili. Superando l’avversione iniziale alle limitazioni a cui ero sottoposta, ho presto considerato il mio soggiorno come un’opportunità. Come donna ho avuto infatti il vantaggio di poter penetrare il mondo femminile, che un uomo non avrebbe potuto esplorare. E grazie alle donne, ho potuto conoscere dall’interno il paese islamico più chiuso ed opaco, ma anche più influente nella politica globale. L’Arabia Saudita è infatti non solo il maggior esportatore di petrolio al mondo, con ¼ delle riserve di oro nero della Terra, ma è anche il paese guida per il mondo musulmano, sede delle 2 città sacre Mecca e Medina (proibite ai non islamici), visitate ogni anno da milioni di pellegrini provenienti da tutto il mondo.

Il contatto con il mondo femminile non è stato difficile e mi ha consentito di aprire un dialogo (in inglese, oppure avvalendomi di un interprete) con donne di ogni estrazione sociale ed età: professioniste, donne d’affari, mogli e madri, dalle più combattive alle più rassegnate; dalle attiviste, alle più conservatrici. Ho conquistato la loro fiducia interrogandole con rispetto e senza esprimere giudizi di valore sulla loro cultura, così estranea alla mia da essere a volte scioccante; e si sono dimostrate disponibili. Grazie a loro ho conosciuto dall’interno la società saudita, ne ho spiato le tensioni e ne ho immaginato l’evoluzione verificando che, “nonostante il velo”, le donne saudite sono forti, determinate e le giovani generazioni impazienti di aprirsi al mondo e diventare cittadine al pari degli uomini, pur nel rispetto delle indicazioni della loro religione totalizzante. Fermo restando che molte donne e molta parte della società rimaneva diffidente e contraria ad ogni innovazione. Tutte le donne che ho intervistato mi hanno colpito; e le storie che mi sono state raccontate, mi hanno appassionata o turbata per la loro drammaticità. Come quella di Wafa, una trentenne che viveva ancora con la famiglia dopo un divorzio ma aveva la fortuna di lavorare; e che è riuscita ad organizzare la sua fuga dal paese e a ottenere rifugio politico in Canada per sottrarsi a suo padre, un uomo violento che la perseguitava e contro il quale non era possibile intervenire essendo il guardiano con potere assoluto su di lei.

Ho trovato straordinarie le donne coraggiose, oggi cinquantenni che nel 1990 (l’anno dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein) hanno organizzato la prima e unica manifestazione della storia del regno: un corteo di auto guidate da donne nel centro di Riad dotate di patenti internazionali che chiedevano di ottenere il diritto alla guida nel loro paese. Fermate dalla polizia religiosa, portate in carcere e poi liberate in cambio della promessa a non ripetere la protesta, sono state per anni ostracizzate dalla società e dalle loro famiglie, additate dagli imam nei sermoni del venerdi come “puttane e comuniste”, hanno perso il lavoro e la possibilità di viaggiare fino alla grazia da parte del re vari anni più tardi. Grazie ad alcune di loro ho potuto successivamente incontrare le giovani attiviste che hanno continuato la lotta in modo meno appariscente, organizzando campagne via twitter per il diritto alla guida.

Molte di loro, come Eman El Nafjan, docente universitaria e madre di 3 figli, sempre pronta a battersi via internet per chiedere riforme a favore della parte femminile, è stata imprigionata, nel marzo 2018 insieme ad un gruppo di altre donne (e ad un gruppo di uomini) pochi mesi prima che il divieto di guidare fosse revocato per tutte le donne nel settembre successivo. Oggi è libera in attesa di giudizio, mentre altre donne sono ancora in carcere. Tutte rischiano una condanna pesante.

La recente incarcerazione delle giovani attiviste è paradossalmente avvenuta proprio quando in Arabia Saudita la situazione sociale si stava evolvendo. Da 2 anni circa, infatti, è in atto un progressivo allentamento delle più rigide norme morali. Non solo è stato concesso alle donne di guidare l’automobile, ma progressivamente la separazione di genere è stata allentata; è stato permesso alle donne di recarsi allo stadio insieme alla famiglia e sono stati consentiti concerti di musica, prima proibiti. Anche lo strapotere del guardiano è stato limitato: oggi le donne possono (almeno in teoria) richiedere il passaporto, viaggiare, lavorare in un ufficio governativo, scegliere la residenza e avere parziale accesso al sistema sanitario, senza il permesso del loro tutore. L’apertura verso un nuovo ruolo sociale della donna è stata anche sancita, con una mossa simbolica, dalla nomina di una donna – Reema Bint Bandar al Saud – ad Ambasciatrice dell’Arabia Saudita negli USA.

Artefice delle riforme è il nuovo protagonista della politica saudita, il trentaquattrenne principe Muhammed, nominato nel 2017 erede al trono dal padre Salman, re dal 2015. A lui, che viene chiamato MBS, (per Muhammed bin Salman, ovvero Muhammed figlio di Salman ) e a cui il padre ha di fatto delegato il potere, si deve il programma ambizioso di modernizzazione delineato nel documento Vision 2030, dove si prefigura per l’Arabia Saudita un’economia non più legata esclusivamente ai proventi del petrolio, aperta allo sviluppo turistico, al lavoro delle donne e all’impiego di un numero crescente di giovani sauditi nei posti di lavoro, in larga parte fino ad oggi occupati dagli stranieri. Per essere libero di procedere nella liberalizzazione sociale, il giovane principe non ha esitato a ridimensionare il potere dei religiosi proibendo ai mutaween di effettuare arresti e detenzioni come facevano in passato. Un vero cambio di rotta, quasi rivoluzionario, per un paese abitato in prevalenza di giovani ma fino ad ora guidato da re anziani (tutti fratelli tra loro, figli del fondatore Ibn Saud) che nulla concedevano alle nuove generazioni.

Salutato all’inizio come modernizzatore sulla scena internazionale, MBS è però ben presto diventato una figura controversa (come è illustrato nel recente documentario televisivo della serie Frontline del canale statunitense PBS). Grande alleato di Donald Trump con cui ha siglato un contratto multimiliardario d’acquisto di equipaggiamento militare, MBS ha lanciato un’offensiva massiccia nello Yemen per combattere i ribelli houti, sponsorizzati dal grande nemico dei sauditi l’Iran sciita. Offensiva che non ha avuto successo ma ha creato una grave emergenza umanitaria. Il principe ha poi congelato i rapporti con il vicino Qatar, mettendo in imbarazzo gli Stati Uniti che hanno proprio qui un’importante base militare; e si è aperto a forme di cooperazione discreta con Israele in nome della comune inimicizia verso l’Iran.

Sul fronte interno, ha affiancato un giro di vite senza precedenti contro ogni forma di dissidenza, come dimostra l’incarcerazione delle donne che avevano lottato per la guida. Molte di loro, come Loujain al-Hathloul, ancora detenuta, hanno dichiarato di aver subito maltrattamenti e torture come ha denunciato Amnesty International. L’azione repressiva contro chiunque abbia osato criticare il potere assoluto del nuovo principe è culminato nell’omicidio, il 2 ottobre 2018, del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, il quale, da convinto sostenitore di MBS era diventato un suo critico e si era trasferito negli USA per non essere perseguitato. Il giornalista è stato assassinato e fatto a pezzi all’interno del Consolato Saudita di Istanbul, dove si era recato per chiedere documenti necessari al matrimonio con la fidanzata turca Hatice Cengiz, come dimostrano le intercettazioni ambientali. L’azione è stata portata a termine da un commando di uomini molto vicini a Mohammed bin Salman, arrivati con 2 voli privati dall’Arabia Saudita e subito dopo ripartiti. La fidanzata di Khashoggi, recentemente intervistata da Andrea Purgatori nella tramissione Atlantide storie di mondi trasmessa su la 7, ha fatto appello alla comunità internazionale affinchè il delitto di stato non rimanga impunito.

I 2 aspetti del nuovo corso saudita, modernizzazione e repressione del dissenso, rivelano 2 anime del paese. Anche se – come avevo verificato durante il mio soggiorno – una buona parte dei sudditi e delle donne rimane conservatrice, le aperture saranno presto accettate da tutti come si è già verificato per la scolarizzazione femminile decisa dal re Faisal negli anni 60, prima avversata dai conservatori e poi accettata di buon grado. È lecito immaginare che l’Arabia Saudita perderà la sua unicità; e per quanto riguarda la questione femminile, si avvierà a diventare più simile agli altri paesi del Golfo. Senza dimenticare che le nuove libertà per le donne, presenti o future, sono possibili soltanto per concessione regale e non come risultato di una lotta o per l’affermazione di un diritto universale.

Michela Fontana, Nonostante il velo – Donne dell’Arabia Saudita, VandA ePublishing/Morellini Editore, collana VanderWomen, 416 pagine, € 17.90

Giornalista e saggista milanese, Michela Fontana ha vissuto 15 anni fra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese e in inglese, si è aggiudicato nel 2010 il Grand Prix de la Biographie Politique. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010) per la casa editrice Le Mani. Nonostante il velo ha vinto nel 2018 il Premio Letterario Femminile Plurale di Allumiere