Nel 1991 merci e stipendi si pagavano in Lire, nasceva ufficialmente il World Wide Web e pochissimi privilegiati avevano in tasca un ingombrante telefono portatile. Era il momento in cui l’Lp in vinile cedeva il passo dopo oltre 40 anni di onorato servizio al compact disc, planato sul mercato di massa a metà anni 80 con la promessa di un suono pulito, scintillante e senza fruscii racchiuso in un supporto maneggevole e indistruttibile.

30 anni dopo, il controsorpasso preannunciato dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi leader del settore: i dati che la società di revisione Deloitte elabora per FIMI (la Federazione dell’Industria Musicale Italiana) fotografano, nei primi 3 mesi del 2021, un mercato musicale sempre più digitale dominato dalle piattaforme di streaming e dai social media, da Spotify e Amazon Music, da Instagram e Facebook (arriva da lì oltre l’80% del fatturato delle case discografiche, sotto forma di ricavi da abbonamenti e di quote di introiti pubblicitari), ma in cui il vinile supera di nuovo il Cd: 4,7 milioni di Euro di fatturato contro 4,4 milioni, +121% sullo stesso periodo dell’anno precedente a fronte di un calo del 6%, e con una incidenza dell’11% sul giro d’affari totale. Un “peso” su cui gioca ovviamente anche il suo prezzo elevato, poiché se per procurarsi l’ultimo disco di Bruce Springsteen in Cd si spendono dai 16 ai 18 Euro, per averlo su vinile (doppio, dati i limiti di durata del supporto analogico) ce ne vogliono 35-40.

È una tendenza in atto in tutto il mondo, in moto dal 2007, che ingloba anche un fiorente mercato sommerso e incalcolabile dell’usato e in cui i tassi di crescita sostenuti sono favoriti da una minuscola base di partenza. Ma anche se l’Lp resta e resterà confinato a un mercato di nicchia e residuale (secondo l’associazione indipendente Audiocoop spesso si stampano in Italia non più di 300 copie a titolo), la sua chiacchieratissima e romantica rinascita non è solo una notizia di colore o una nota da confinare a piè di pagina. Perché dentro a un fenomeno circoscritto e a una tendenza ormai consolidata si muove qualcosa di interessante e di inatteso.

The Dark Side Of The Moon (1973)

Vediamo: in tutto il 2020, secondo i dati FIMI, l’Lp più venduto in Italia era stato – ancora lui! – l’immarcescibile The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, un disco smerciato fino a oggi in non meno di 45.000.000 di copie in tutto il mondo ma che sembra rinascere a ogni cambio di generazione. Nella Top 10 degli Lp più venduti dell’anno gli facevano compagnia un altro titolo della band di David Gilmour e Roger Waters (The Wall), 2 dei Queen, 1 a testa di AC/DC, Nirvana e Bob Marley ma anche il Letter To You di Bruce Springsteen e i nuovi dischi dei rapper nostrani Sfera Ebbasta ed Ernia. L’ultima classifica disponibile, che registra le vendite dal 16 al 22 aprile 2021, è ancora più indicativa di una trasformazione in corso, con Måneskin, Achille Lauro, Coma_Cose, Ligabue e Greta Van Fleet nelle prime 5 posizioni. Che significa? Significa che il mondo del vinile non è più, o non è più soltanto, un “paese per vecchi”, appassionati over 40 (o 50, o 60), big spenders tradizionalmente e culturalmente fedeli a un supporto che non avevano abbandonato neanche quando nei primi anni 90 le case discografiche lo avevano messo fuori produzione, le novità si trovavano solo in Cd e ci si doveva accontentare di quel che si trovava nei mercatini.

Pink Floyd: Richard Wright, Nick Mason, Roger Waters, David Gilmour

Insomma: il vinile, che è sempre piaciuto agli artisti, agli audiofili e ai vecchi nostalgici, oggi piace anche ai ragazzi. Agli adolescenti e ai 20enni che acquistano su Amazon e nei pochi negozi rimasti i 33 giri delle nuove star della trap e dell’indie pop ma anche Pink Floyd e Queen, Beatles e David Bowie, Led Zeppelin e gli altri nomi storici che hanno imparato a conoscere sfogliando la collezione di papà. È una frangia ridotta ma agguerrita di consumatori che non si accontentano di aprire il rubinetto dello streaming o di ascoltare musica compressa sullo smartphone e che, emulando i genitori, vogliono tornare alla sensazione tattile del vinile, al fascino delle grandi copertine formato 12 pollici, al profumo del cartone, al misterioso fascino di un oggetto che arriva da un altro tempo e da un’altra dimensione.

Enzo Mazza, consigliere delegato della FIMI (Federazione dell’Industria Musicale Italiana)

«È un po’ una sorpresa anche per noi, il fatto che da fenomeno di nicchia il consumo di vinile si stia trasformando in fenomeno transgenerazionale», ci dice Enzo Mazza, consigliere delegato della FIMI. «Sembra che, per molti ragazzi, il desiderio di possedere un oggetto fisico si leghi alla volontà di cementare il legame con l’artista preferito. Come si trattasse di comprare un pezzo del loro merchandising». E sottolinea che «una mano a questa evoluzione l’hanno data anche certi artisti di area urban, che già oggi pubblicano in vinile e in digitale ma non su Cd; e la 18App, il bonus da 500 Euro spendibile in prodotti culturali a disposizione di chi è diventato maggiorenne».

Per motivi anagrafici molti 18enni hanno saltato a piè pari l’era del Cd, che ai loro occhi rischia di sembrare desueto quanto un gettone telefonico, un Vhs o un fax. Il calore, la dinamica e la presunta supremazia qualitativa del vinile – una questione da prendere con le molle, se si pensa a quanti giradischi e amplificatori di pessima qualità siano in circolazione e ai risultati sconcertanti di certi transfer da master digitale ad analogico – esercitano un fascino indiscutibile, ma nella scelta entrano in gioco anche altri fattori. Emotivi, affettivi, psicologici.

Per una fetta di teenager e di 20enni, il vinile è tornato a essere uno status symbol, un oggetto di scambio, un segno di identificazione e di appartenenza culturale, un articolo da collezione (che qualcuno ripone immediatamente nello scaffale senza neanche aprire il cellophane per ascoltarne il contenuto in forma liquida) o un pezzo da arredamento da esporre e incorniciare come si faceva con i vecchi poster nella cameretta. È diventato un trending topic sui social, un argomento cool e di moda anche per la cosiddetta Generazione Z.

Måneskin

Basterà a salvare i negozi indipendenti, gli “ultimi Mohicani” rimasti a presidio del territorio che si apprestano a celebrare un altro Record Store Day in lockdown, o ci sarà solo spazio per Jeff Bezos, il fondatore e presidente di Amazon? L’indotto riuscirà a dare una scossa a settori industriali che si davano per dispersi (la Technics, per dire, ha appena rimesso in produzione il mitico giradischi SL 1200 accanto a modelli più economici)? E sarà vera, duratura gloria? È una dolce rivincita per la vecchia guardia o una moda effimera, quello scricchiolìo che torna a “sporcare” piacevolmente la nostra colonna sonora quotidiana?

La marcia della musica digitale e dello streaming non si fermerà certo qui: la riduzione dei punti vendita “fisici” e le difficoltà di approvvigionamento della materia prima (sono pochissime, ormai, le stamperie attive nel mondo) pongono limiti oggettivi e un plafond alla crescita della nicchia. Ma Mazza è ottimista: «La cosa interessante», dice, «è che la domanda continua a salire in parallelo allo streaming. Quest’ultimo ha cannibalizzato il download che a sua volta aveva cannibalizzato il Cd, mentre il vinile sembra agganciato allo stesso treno: più cresce uno, più cresce l’altro».

Il giradischi Technics SL 1200

Sembra di vivere un Back to the Future, un ritorno al futuro come nel vecchio film di Robert Zemeckis con Michael J. Fox e Christopher Lloyd. L’industria discografica si ritrova inaspettatamente per le mani una DeLorean che viaggia nel tempo portando nelle nostre case quei vecchi, cari, desueti “padelloni” di plastica che sono l’antitesi del concetto di smaterializzazione del consumo quanto i megabox in superdeluxe edition e le tirature limitate che oggi alimentano un vivace mercato “parallelo”. Dove, conferma Mazza, «il prodotto fisico diventa quasi un bene esclusivo e di lusso. È quasi un paradosso, rispetto ai tempi in cui si discuteva animatamente sul prezzo del Cd: oggi per un vinile o per un cofanetto non si bada a spese».

È una buona notizia, tutto sommato, perché vuol dire che il music business non è (o non è ancora) un regime totalitario, che consumo e mercato sono “fluidi” – senza compartimenti stagni – e lasciano uno spiraglio anche a chi lo streaming proprio non lo digerisce (compresi gli artisti che si lamentano dei compensi irrisori che ne ricavano). Il vintage, il feticismo collezionistico, la voglia di mettersi ad ascoltare musica dedicandole il tempo e la qualità necessaria non sono scomparsi del tutto e qualcuno, tra i post millennials, è pronto a raccogliere il testimone. Chi l’avrebbe mai detto?