«Che vuol dire essere un adolescente in stato confusionale?». Nell’aprile del 1983 i Violent Femmes provano a spiegarcelo attraverso le 10 canzoni raccolte nel loro 1° album omonimo (che si fa notare già dalla copertina: una bimba sbircia l’interno di una casa dalle fessure del portone). Sono insieme da circa 2 anni, e nel luglio del 1982 hanno trascorso un’afosa settimana estiva nei locali ad aria condizionata della Castle Recording Company di Lake Geneva, uno studio di registrazione ormai allo sfascio che si trova a 1 ora d’auto da Milwaukee, nel Wisconsin; e che i creditori stanno svuotando poco alla volta.

Gordon Gano, l’autore dei pezzi, ha meno di 20 anni; Brian Ritchie 3 in più, mentre Victor DeLorenzo è un maturo 28enne che con i compagni di band si intende, almeno per ora, alla perfezione. Hanno le idee chiarissime e sono convinti di poter sfondare, anche se il nastrino demo di 9 pezzi che avevano registrato poco tempo prima sul 4 piste casalingo dell’amico, fan della prima ora e produttore designato Mark Van Hecke non è servito a procurare un contratto ai 3 ragazzi, invitati ad aprire un concerto dei Pretenders all’Oriental Theatre nell’agosto del 1981 dopo che James Honeyman-Scott e Chrissie Hynde li hanno visti suonare davanti all’ingresso come 3 buskers qualsiasi.

Amano il vecchio rock and roll di Elvis Presley e di Little Richard, di Buddy Holly e di Gene Vincent. Adorano i Velvet Underground e i Modern Lovers di Jonathan Richman, ma nelle loro performance estemporanee si ispirano anche al jazz cosmico e fuori di testa di Sun Ra. Eppure in quel momento nessuno, ma proprio nessuno, scrive e suona come loro canzoncine brevi, pungenti, irresistibili, ansiose e umoristiche eseguite con una strumentazione povera in rigoroso stile minimal. Poco accade finché il mitico critico del New York Times, Robert Palmer, assiste ai loro show al CBGB e al Bottom Line e li loda più degli headliners delle serate, Richard Hell & the Voidoids. La sua entusiastica recensione viene letta da tutti quelli che contano, nella Grande Mela, anche se per arrivare all’agognato traguardo dell’incisione di un disco i 3 dovranno accettare un prestito di 10.000 $ dal generoso papà di DeLorenzo e poi volare a Los Angeles per firmare con la Slash Records, la indie più figa del momento che già pubblica i dischi di gente come gli X, i Dream Syndicate e i Blasters.

Violent Femmes: Brian Ritchie, Victor DeLorenzo, Gordon Gano

Violent Femmes arriverà nei negozi esattamente come lo voleva il trio: 10 canzoni, non una di più né una di meno, ordinate in una sequenza che la band ha in testa fin dall’inizio. A lanciare e a introdurre il disco doveva essere per forza Blisters In The Sun, il biglietto da visita che apriva tutti i concerti e che resta tutt’oggi il pezzo più conosciuto e apprezzato in catalogo. Scoppiettante, singhiozzante, con un riff in staccato e un ritornello adesivo come l’Attack. E a chiuderlo non poteva essere che Good Feeling, il brano più velvettiano, più melodico e più malinconico: perché una delle peculiarità della migliore musica degli anni 60, la più amata dal trio, era «l’idea di terminare un album con una bella ballata».

Gli appiccicano subito addosso l’etichetta folk punk, una definizione che ai 3 sta stretta ma che contiene un fondo di verità. Il folk — l’approccio da jug band stradaiola — stanno nella strumentazione sostanzialmente unplugged e un po’ raccogliticcia: mentre Gordon strimpella una chitarra acustica e molto più raramente una 6 corde elettrica, Brian suona una chitarra basso usata dalle band dei mariachi messicani e Victor percuote – restando sempre in piedi — 1 rullante, 1 piatto e una strana creatura da lui ideata, il tranceaphone: 1 secchio di metallo capovolto appoggiato a 1 timpano che produce un suono rumoroso zeppo di echi e vibrazioni. Il punk sta nell’approccio irriverente, scanzonato, provocatorio e un po’ scazzato. L’energia selvatica e le melodie sono figlie del 1° rock and roll e della Sun Records; il gusto per l’improvvisazione, per lo spiazzamento e per il rischio arrivano dal free jazz.

DeLorenzo mette a frutto le sue esperienze di attore e di teatrante per fare scena, Ritchie è dotato di un dinamismo travolgente, Gano di una voce nasale cantilenante, abrasiva e strafottente e soprattutto di un songwriting molto originale. Nelle musiche come nei testi, che riflettono — come osserverà Brian — «il desiderio di cantare cose che la maggior parte della gente avrebbe ritenuto imbarazzante, che avrebbe potuto confessare al suo psichiatra ma non alla sua ragazza».

Ovvero: pulsioni e frustrazioni sessuali, educazione sentimentale problematica e senso di spaesamento nella società, voglia di sballarsi e incapacità di comunicare con gli altri (soprattutto con l’altro sesso). 18 anni prima, i Rolling Stones avevano già cantato (I Can’t Get No) Satisfaction e gli Who My Generation: ma il linguaggio dei Violent Femmes è moderno, aggiornato, contemporaneo e senza censure, poco prima che sui dischi rock compaiano i bollini che avvertono della presenza di “explicit lyrics” e si abbattano le ire funeste dei genitori americani guidati da Tipper Gore, moglie dell’allora deputato democratico e futuro vicepresidente Al (“Perché non posso farmi almeno una scopata?” canta Gano, mentre Brian sostiene che, accantonati per il futuro prossimo i pezzi che fanno i conti con la sua rigorosa educazione cristiana, «le sue canzoni migliori Gordon le ha scritte quand’era ancora vergine»). Il piccolo frontman non è certo un sex symbol come Mick Jagger e non ha la raffinatezza intellettuale di Pete Townshend. È il simbolo perfetto di una generazione di nerds, di sfigati e di irregolari che vogliono emergere dalla massa ma che non hanno le carte in regola per competere nell’America atletica, ottimista, rapace, patriottica e con il sorriso a 32 denti voluta da Ronald Reagan.

La scrittura di Gano si basa sulla reiterazione balbettante di poche frasi e di pochi concetti, ma funziona alla grande. In Blisters In The Sun il protagonista è uno strafatto che ancora macchia le lenzuola senza neanche sapere il perché. In Kiss Off , filastrocca che conta da 1 a 10 esplodendo in un convulso finale a base di improvvisazione e feedback, un disperato che invoca qualcuno con cui poter parlare mentre Add It Up incorpora uno stralunato inserto parlato: ispirato, per esplicita ammissione dell’autore, a Rapture dei Blondie e a Surfin’ Bird dei Trashmen. L’amante abbandonato di Please Do Not Go si esprime in un falsetto quasi parodistico su un ondeggiante ritmo giamaicano che lascia spazio a un assolo di basso di Ritchie, mentre Victor accarezza con le sue spazzole una Confessions rallentata, bluesata, nervosa, desolata e minacciosa prima di un’altra breve deflagrazione cacofonica.

Prove My Love (“che devo fare, per provarti il mio amore?”, sbraita Gordon sempre più impaziente) e Promise tornano al rock and roll più basico e accattivante, ritmo spedito e osservazioni taglienti su altri amori non corrisposti e mai destinati all’happy ending. To The Kill è una variazione sul tema che assume toni più aspri e dissonanti e Gone Daddy Gone il commiato dall’ennesima fiamma svanita nel nulla: insieme a Blisters In The Sun è il pezzo forte e più riconoscibile del disco, con quel fraseggio insinunate di xylofono che Ritchie s’inventa un giorno durante una delle tante esibizioni in strada.

Quando consegnano i nastri alla Slash dopo le opportune correzioni in sede di missaggio che provocano qualche attrito con Van Hecke (i 3 musicisti insistono giustamente per conservare un suono “live”, crudo, genuino e non edulcorato), i Violent Femmes sanno di avere in mano un asso, un album destinato a fare epoca «come Marquee Moon dei Television». A differenza del capolavoro della band di Tom Verlaine, però, Violent Femmes sarà anche un successo commerciale, disco di platino negli Usa e vendite che solo in patria supereranno abbondantemente i 3.000.000 di copie. Un piccolo miracolo, forse: negli artificiosi anni 80, un trio di musicisti di strada dimostra che si può ancora fare musica con poco o niente, sviluppando con 3 strumenti acustici la stessa intensità del miglior rock and roll elettrico ed estraendo dalle viscere del Midwest americano un classico che, come ha scritto Michael Azerrad nelle note di copertina della ristampa Rhino 2002 su doppio Cd, a 20 anni dall’uscita faceva ancora parte del corredo di ogni bohémienne universitario che si rispetti assieme alle sigarette alle erbe, ai vestiti comprati negli empori di roba usata e a una copia di Naked Lunch di William S. Burroughs.

Il messaggio arrivò forte e chiaro pure a migliaia di chilometri di distanza: anche chi leggeva Milan Kundera, calzava Timberland e teneva in camera il poster di Che Guevara o di Bob Marley, poteva sentirsi parte della stessa famiglia e giurare amore eterno al 1° album dei Violent Femmes.

Violent Femmes, Violent Femmes (1983, Slash Records)