Prodotto da Lenny Waronker”. Ascoltando Sail Away di Randy Newman e leggendo le note di copertina dell’Lp, la giovane Rickie Lee Jones aveva deciso che quella frase avrebbe dovuto comparire anche sul suo 1° album: amava quei suoni che ricordavano Hollywood e Broadway, quei musicisti, quello stile tetragono alle mode. Siccome a volte i sogni si avverano, i primi momenti della carriera della musicista chicagoana assomigliano a una bella favola e arrivano dopo un’infanzia e un’adolescenza vissute intensamente.

Famiglia nomade e problematica con antiche radici nel mondo dell’intrattenimento (il nonno paterno danzava negli spettacoli di vaudeville pur avendo una gamba sola), genitori orfani, un padre cantante frustrato e alcolizzato, ribellione, fughe da casa e viaggi in autostop per poi stabilirsi nella California meridionale contando sui primi ingaggi nei folk club e su un lavoro come cameriera e cantante in un ristorante. Il seguito della storia è entrato nel folklore della musica popolare: vita bohémienne vissuta come non ci fosse un domani alla maniera di Charles Bukowski, il colpo di fulmine reciproco con Tom WaitsSembrava Jayne Mansfield», ricorderà il cantautore di Pomona del loro 1° incontro) e una storia d’amore consumata tra la piscina, le palme, il cocktail bar e la fauna notturna del Tropicana Motel di Los Angeles, i 2 che fumano e si sbronzano parlando di musica, cinema e letteratura rivivendo nella fantasia l’epopea di Frank Sinatra (un mito comune) e di Ava Gardner.

Rickie Lee ha il look giusto — è lei la bionda pin-up vestita di rosso, fotografata di spalle e languidamente appoggiata di fronte a Tom sul cofano di una Thunderbird del ’64 nel retrocopertina di Blue Valentine — e un mazzo di canzoni che lasciano a bocca aperta: mini sceneggiature cinematografiche che rivelano i suoi amori, la poesia beatnik e le colonne sonore di Leonard BernsteinMi sentivo sempre come se fossi in West Side Story, come se fossi sempre a ballare per strada»). Una di queste, Easy Money, piace molto a un altro talento eccentrico della Città degli Angeli, Lowell George, che dopo avere lasciato i Little Feat decide di inciderla per il suo 1° e unico album solista, Thanks, I’ll Eat It Here. La sua versione e quella di Rickie Lee, inclusa nel suo Lp di debutto omonimo, arriveranno nei negozi quasi contemporaneamente, tra fine febbraio e inizio marzo del 1979, e per la stessa etichetta discografica, la Warner Bros. Più bluesata, sporca e irrobustita da una sezione fiati quella di Lowell, più jazzata ed elegante quella della Jones introdotta da un walking bass e punteggiata da un vibrafono oltre che da un piano ragtime: lui la canta con una voce grassa come una miscela ad alta carburazione, lei con un trillo acuto da adolescente, pigro e sensuale.

Nello scatto di copertina ad opera del celebre fotografo Norman Seef, Rickie Lee immortala la sua immagine da “Duchessa di Coolsville”, il luogo ideale frequentato dagli artisti e dalla gente giusta, capelli biondi e fluenti, basco in testa e cigarillo in bocca. La musica è altrettanto seducente, distante dalle coordinate della canzone pop dell’epoca. La Jones è una delle poche, pochissime, a non riconoscere in Joni Mitchell il faro guida, a non aspirare al trono della canadese e di Judy Collins. «Non me ne frega un cazzo della musica folk», ribadisce. È cresciuta ascoltando Nina Simone e Sarah Vaughan, le grandi interpreti della black music e il jazz; e l’unica vera anima affine tra le bianche (quasi) contemporanee è Laura Nyro: agli sbalzi umorali e alle meditazioni notturne di un disco come New York Tendaberry si avvicinano l’ottovolante vocale ed emotivo e gli sprazzi impressionistici di Coolsville, la voce che vola in cielo e si inabissa sotto terra accompagnata dal pianoforte e da un tenue arrangiamento di fiati, mentre la musica d’altri tempi di Company, con un tappeto d’archi sullo sfondo, è un po’ Laura e un po’ Rodgers & Hart. È una ballad romantica che ha un sapore antico come On Saturday Afternoons In 1963 (un titolo che più newmaniano non si può); e anche il testo più semplice e diretto in un disco in cui un vocabolario ricco e scelto con cura dipana storie complesse e non rivela tutto al 1° ascolto. «Mi ero accorta presto che una delle cose che non so fare nelle canzoni è parlare in prima persona. Dovevo creare dei personaggi».

Fittizi e reali, come l’altro hipster, collega, compagno di bevute e di scorribande notturne Chuck E. Weiss, protagonista in prima persona della canzone che la lancia subito in orbita, N° 4 nella classifica di Billboard e memorabile introduzione a Rickie Lee Jones: uno swing pop in abito da sera, con i fiati extralusso, una raffinatezza che ricorda gli Steely Dan e un ritmo da seguire schioccando le dita. È il sogno — la profezia, perché Rickie Lee ha anche doti divinatorie — che si avvera, Waronker alla console insieme al fedele partner Russ Titelman, uno stuolo di turnisti e di assi del jazz, del rock e del pop a farle compagnia: tra loro, l’altro amico di bevute Dr. John alle tastiere, Randy Newman al sintetizzatore, i fiati di Tom Scott e di Chuck Findley, Jeff Porcaro e Steve Gadd alla batteria, Red Callender al contrabbasso, Fred Tackett alla chitarra, Michael McDonald ai cori, il tuttofare di scuola davisiana Victor Feldman tra percussioni, tamburi e tastiere.

Grazie a loro le canzoni diventano più corpose, luccicanti e accattivanti, soprattutto quando sono il ritmo e lo swing a farla da padroni. In Night Train le improvvisazioni vocali della Jones si ancorano a un ritmo metropolitano e latineggiante che ricorda i Drifters e l’atmosfera di Spanish Harlem; nella spumeggiante Youngblood si aggrappano a un basso slap, alle percussioni e a un sax soprano che incorniciano una storia di quartiere popolata da coloriti personaggi waitsiani, mentre il jive di Danny’s All Star-Joint scruta i frequentatori di una affollata bettola dove si beve, si balla e si infilano monetine nel flipper e nel juke-box; e l’irresistibile Weasel And The White Boys Cool (1 dei 2 pezzi firmati a 4 mani con il vecchio collaboratore Alfred Johnson) ci fa fare la conoscenza con Sal, Angela, Perry, Mario e gli altri abitanti del barrio messicano di L.A.

Il capolavoro assoluto è però The Last Chance Texaco, titolo della recente autobiografia della Jones pubblicata nel 2021: una vertiginosa, poetica e metaforica road song condotta dalla chitarra acustica in cui la protagonista è descritta come un’auto malandata e il suo nuovo amante come un’ultima stazione di servizio in cui sostare prima di restare senza benzina, mentre “una lunga fila di fari curva lungo la Interstatale 9”. È l’ultimo pezzo della facciata A del vinile, ma quando al termine del lato B Rickie Lee canta After Hours (Twelve Bars Past Goodnight) augurandoci la buona notte con una breve ballata pianistica, è di nuovo sola, in piedi all’angolo di una strada. Un altro presentimento, perché la musica resterà, sempre e comunque, la sua unica compagna fedele: «Mi sento persa quando non mi esibisco. Non ho identità. Non ho un compagno. Non ho un’infrastruttura», dichiarerà molti anni dopo al mensile inglese Mojo. Il prezzo da pagare, forse, per un’ascesa così meteorica quando, nel 1979, Rickie Lee è la nuova ragazza da copertina del pop, in vetta alle classifiche e con un Grammy agguantato al primo colpo come “migliore nuova artista”. Poi Tom le spezzerà il cuore e la favola si trasformerà in un incubo, complice l’eroina e un music business che dimentica in fretta. Ma per fortuna, come in un vecchio film di Frank Capra, il lieto fine è dietro l’angolo.

     Rickie Lee Jones, Rickie Lee Jones (1979, Warner Bros.)