Station To Station del 1976 sta giusto a metà strada fra la black music di Young Americans e le fluorescenze elettroniche di Low. È il breve, ma intenso capolavoro di David Bowie che rivede la luce con l’aggiunta del doppio Cd Live Nassau Coliseum ’76. L’anno prima, Bowie è reduce dal film L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg. Torna a Los Angeles che pesa sì e no 40 chili, sopraffatto com’è dall’abuso di cocaina. Dichiara: «Ho fatto la mia parte. Non ci saranno più dischi di rock né concerti, per quanto mi riguarda. Il rock è morto. È come un’imbarazzante, vecchia sdentata». Poi ci ripensa e incide Station To Station ai Cherokee Studios di Hollywood alternando euforia e depressione. Thin White Duke, si fa chiamare: Sottile Duca Bianco. Difficile per i musicisti stargli dietro, perché Station To Station è la sua via crucis: umana e professionale. Per poter risorgere dalle ceneri, deve raggiungere l’Albero della Vita descritto nella Kaballah. Nel 2006, in un’intervista, ricorderà: «È stato uno dei più cattivi periodi della mia vita. Una sfuocatura, alimentata da un’ansia cronica che sconfinava nella paranoia». Eppure, quel mix di nichilismo e misticismo produce pezzi epocali: gli 11, trascinanti minuti del pezzo che dà il titolo al disco, con quello sferragliare del treno che rende omaggio ai Kraftwerk di Autobahn; il funky perfetto di Golden Years, registrato e completato in una decina di giorni; la melodia, il soul, gli struggimenti e la catarsi di Word On A Wing, col pianoforte suonato da Roy Bittan (E-Street Band di Bruce Springsteen) in primissimo piano; l’eleganza sgangherata di TVC15, con le sue bizzarrìe honky tonk; l’alchimìa di funk, R&B e hard rock che riempie fino all’orlo Stay; l’epilogo, ardentemente romantico, di Wild Is The Wind: scritta nel 1956 da Ned Washington e dal compositore Dimitri Tiomkin, già tema conduttore dell’omonimo film western.

Poi c’è il tour, che culmina nel concerto del 23 marzo 1976 al Nassau Coliseum di Uniondale, nello stato di New York. Bowie, scheletrico dandy dai capelli impomatati, indossa pantaloni neri, gilet, camicia immacolata. Si fa introdurre da una sequenza di Un chien andalou, il silent movie di Luis Buñuel e Salvador Dalí. Poi, accompagnato da Carlos Alomar e Stacey Heydon (chitarre), George Murray (basso), Tony Kaye (tastiere) e Dennis Davis (batteria), sciorina le vertigini di Station To Station e il rock and roll di Suffragette City, Queen Bitch e Panic In Detroit; declina i Velvet Underground di Waiting For The Man e tinteggia Rebel Rebel di rhythm & blues; scuote il funk con Fame e Stay; fa l’entertainer con TVC15 e il visionario con Diamond Dogs; distilla nobili melodie con Life On Mars?, Changes, Five Years e Word On A Wing. Alla fine, con The Jean Genie, cavalca il rock blues. Sta per uscire dal suo anno sabbatico, il Duca Bianco. C’è Berlino, ad attenderlo. Dal 1977 al 1979 risorgerà definitivamente dalle proprie ceneri con Low, Heroes e Lodger, complice Brian Eno. Ricorderà Station To Station come «un’opera tenebrosa concepita da un uomo totalmente diverso». Ma una tappa “clou” della sua carriera.

David Bowie, Station To Station + Live Nassau Coliseum ’76 (EMI)