Ecco finalmente una giornata speciale: nel mio rifugio sull’Alto Lario, per lunghe ore a chiacchierare di tutto e di più con una cara amica, Silvia Lelli. Ormai si sono fatte scarse le occasioni per incontrarci, ma ci conosciamo dai primi anni 70, dall’epoca della rivista musicale Gong, quando Silvia con il marito Roberto Masotti (entrambi ravennati) erano sbarcati da poco a Milano: 2 ragazzi legati per sempre dalle stesse passioni per la fotografia, la musica e il mondo dello spettacolo. Erano soltanto gli esordi di una coppia destinata a una rapida ascesa. In seguito sarebbe venuta una lunga sequenza di esperienze: la collaborazione a Musica Viva (la rivista di Lorenzo Arruga); le molte stagioni al Teatro alla Scala; la partecipazione ai festival più importanti (da Salisburgo a Umbria Jazz); le grandi mostre e la pubblicazione di tanti libri; la costruzione di un imponente archivio che ha imposto ovunque il marchio Lelli e Masotti.
Poi, nell’aprile del 2022, la scomparsa di Roberto: una svolta dolorosa, cui tuttavia Silvia ha saputo reagire con coraggio; e la migliore conferma è venuta la scorsa primavera dalla straordinaria avventura di Salerno. Nella città campana è stata allestita la mostra-consuntivo nello storico Palazzo Fruscione, divisa in 3 sezioni (Nucleus/Kontakthof-Kontrapunkt/Musiche), con 140 scatti fotografici di Silvia e Roberto. A queste si è aggiunta una quarta sezione (Ombra e Penombra) con le foto realizzate da Silvia all’interno del Teatro Verdi, durante le prove e la prima della Manon Lescaut diretta da Daniel Oren. Un’ulteriore occasione per esplorare gli spazi, anche i più nascosti, di un teatro.
Roberto Masotti e Silvia Lelli alla Fondazione Mudima di Milano
© Fabio Mantegna 2016
È sempre stata una tua antica passione conoscere i teatri ottocenteschi all’italiana. Il che in fondo è normale per una come te, laureata in architettura. Ricordo ancora quel magnifico volume legato a questo tema: La vertigine del teatro. Ma stavolta ne hai trovato uno che ancora non conoscevi, vero?
«Sì, perché non ero mai stata a Salerno. E devo dire che ne ho un ricordo meraviglioso: una bella fatica sul piano organizzativo, ma un’esperienza davvero indimenticabile».
Sul rapporto della fotografia con lo spazio, grazie a te, credo ormai di sapere tutto o quasi. Ma vorrei sapere qualcosa di più sul rapporto con il tempo: sul gesto che congela l’attimo fuggente, la magia dello scatto che ferma lo scorrere del tempo…
«Beh, a proposito di quell’attimo ho sempre avuto molte perplessità. Forse devo ancora chiarire qualcosa con me stessa, ma sono convinta che quell’attimo ha sempre in sé un prima e un dopo. Quando mi sento dire “sei stata fortunata, hai colto l’attimo ”, io mi arrabbio. Se sei arrivata lì è perché hai fatto un lavoro preparatorio, perché conosci quell’artista o quella musica; e arrivi a quel momento per il lavoro mentale che è stato fatto prima. E il tuo pensiero diventa fondamentale anche dopo, quando ti impegni nell’analisi critica e nella scelta degli scatti migliori».
A questo punto mi vengono in mente le tue foto su spettacoli di danza e lo strettissimo legame fra la danza e il tempo. Che cosa ha rappresentato quella parte del tuo lavoro?
«Fotografare la danza è una grande sfida, a maggior ragione la classica, almeno per me che avevo iniziato dalla contemporanea. E lì ho ricevuto una grande lezione da un artista come Rudolf Nureyev (che ho conosciuto negli ultimi anni di attività, ben consapevole del declino fisico). Mi avevano avvisato che voleva scegliere personalmente ogni foto e che spesso strappava quelle scartate. Mi sono presentata dopo aver fatto una prima severa selezione, con sole 10 foto. Io (una giovane fotografa che lavorava da poco alla Scala) ero ovviamente emozionatissima; e lui è arrivato nervoso dopo le prove: le ha passate una ad una e alla fine ne ha scelte 3; per fortuna, però, le altre non le ha strappate. Mi chiedevo perché quelle 3 e alla fine credo di aver capito: per lui la cosa più importante non era la foto perfetta ma quella che coglieva al meglio la sua interpretazione».
Rudolf Nureyev saluta il pubblico al termine dello spettacolo Romeo e Giulietta, Teatro alla Scala, 1980-81
© Lelli e Masotti / Archivio Teatro alla Scala
Insomma, il punto era interpretare l’interpretazione.
«Eh sì, perché in fondo è questo che fai quando fotografi. Tant’è vero che quando, sia a me che a Roberto, mostravano una foto e chiedevano se era nostra, non avevamo mai dubbi. Se è tua è come sentirti a casa, non puoi non riconoscerla. Dietro c’è sia il tuo pensiero sia il tuo modo d’improvvisare: proprio come in musica, c’è quello che tu consideri il giusto dosaggio dell’uno e dell’altro».
Qui affiora anche la docente. Mi racconti come sono nati i tuoi corsi?
«Tutto è cominciato quasi per caso, dopo una conferenza per lo IED (Istituto Europeo di Design) sulla fotografia di spettacolo. Mi è stato chiesto un programma per un corso e così è partita un’esperienza durata 20 anni. Io ho chiesto di avere giovani con un’istruzione superiore, possibilmente universitaria, disposti a un approccio molto consapevole alla professione, diverso da quello di tanti ragazzi che sognano troppo ingenuamente (“faccio il fotografo, giro il mondo e divento ricco”). E nonostante tutto, ho trovato persone molto diverse fra loro: ad esempio, fra uno che studia matematica o scienze e uno che studia architettura o all’Accademia, perché il primo non ha fatto studi approfonditi di storia dell’arte, che invece ha fatto il secondo. Comunque il rapporto con gli studenti è stato bellissimo: perché è vero che tu dai loro molto, ma loro ti danno ancora di più».
Purtroppo anche nelle scuole medie superiori la storia dell’arte, come d’altronde la musica, è molto trascurata, quasi inesistente.
«Invece nel mio corso consideravo la storia dell’arte qualcosa di essenziale. Noi italiani non ce ne rendiamo conto, forse perché siamo talmente circondati dai capolavori; però lo studio approfondito è un’altra cosa. Se noi fotografi vogliamo affrontare seriamente il problema della composizione dell’immagine, è alla grande arte italiana (da Giotto in poi) che dobbiamo far riferimento, soprattutto al ‘400 e al Rinascimento. Tanto è vero che io ripetevo spesso “andate pure a vedere le mostre fotografiche, ma non mi portate delle inutili imitazioni dei grandi fotografi: andate piuttosto a vedere la grande arte e riflettete sull’insegnamento dei pittori sulla prospettiva, sull’inquadratura ”. Negli ultimi anni ho tenuto anche un corso per studenti stranieri a Venezia, nella sede IED su una meravigliosa isoletta senza nessuna fermata di servizi pubblici. Arrivata alla stazione ferroviaria, dovevo prendere un vaporetto fino alla Biennale e poi un barcaiolo soprannominato Caronte mi portava a destinazione. Ma quando c’era nebbia, Caronte considerava la traversata troppo pericolosa… Ho lasciato l’incarico quando Roberto si è ammalato, perché dovevo affrontare da sola troppi impegni, soprattutto quello dell’archiviazione che continua a essere il più importante e mi accompagnerà per tutti gli anni futuri».
Nureyev in una prova di Romeo e Giulietta al Metropolitan di New York, durante il tour del Teatro alla Scala, 1981
© Lelli e Masotti / Archivio Teatro alla Scala
Se la fatica dell’insegnamento è stata notevole, l’organizzazione delle mostre non credo sia stata inferiore.
«Sono impegni molto diversi. Nelle mostre c’è la fatica (mentale e fisica) per organizzarle, ma anche il confronto con le esigenze del mercato. Per ogni mostra io e Roberto stabilivamo un solo formato di stampe e il numero di copie, 5 o 10 (più 2 prove d’archivio). Solo con numeri così limitati si possono vendere le stampe a certi prezzi e garantire correttezza agli acquirenti».
Tu e Roberto avete iniziato a lavorare con l’analogico, ma poi siete passati al digitale anche se molti della vostra generazione non hanno voluto fare questo passo.
«Io conservo molti bei ricordi del passato, ma ho sempre preferito guardare avanti. E ritengo che la nostra è stata una generazione fortunata, proprio perché ha vissuto l’epoca del passaggio dall’analogico al digitale. I vantaggi sono stati molti. Il tempo trascorso in camera oscura, ad esempio, ci ha lasciato un’attenzione, una sensibilità che non possiede la maggior parte dei giovani cresciuti col digitale, pur essendo tecnicamente molto più competenti. Il digitale permette di fare molti più scatti, il che a volte è utile e a volte no. Molti ragazzi fanno un’infinità di scatti e poi non si sentono capaci di scegliere. Quando mi chiedono “per favore, aiutami a scegliere ”, io mi sento disorientata. Probabilmente dietro questa insicurezza c’è una mancanza di progettazione (il “prima” dello scatto) e anche una “cultura internettiana”, dove qualsiasi foto è bellissima e merita un like. Ma allora come si fa a capire cosa è davvero bello?».
© Luca d’Agostino/Phocus Agency 2009
Vuoi raccontarmi qualcosa dei non facili anni alla Scala. Come è cominciata quell’avventura?
«Con una sorprendente proposta, che io e Roberto abbiamo subito rifiutato: un contratto di appalto, come se fossimo un’agenzia che faceva le foto e poi le vendeva. Ma noi abbiamo detto: “Guardate che se veniamo qui è perché pensiamo a fare la storia di un grande teatro, non per vendere foto. Dunque lavoreremo anche per la foto del giorno dopo da inviare ai giornali, ma soprattutto per creare un archivio della Scala ”. Loro si sono molto meravigliati, ma poi hanno assunto una persona per l’archivio che ora raccoglie 500.000 fra negativi e diapositive, realizzati nei 17 anni di attività come fotografi ufficiali del Teatro. Noi, invece, ci siamo ritrovati contro il mondo dei fotografi… D’altronde fin da principio avevamo pensato alla memoria e anche nel nostro archivio ogni singolo fotogramma viene numerato. Secondo questa logica abbiamo lavorato con tutti i dettagli necessari che documentano gli eventi, le pubblicazioni e la grande quantità di scatti che immortalano artisti di fama internazionale. Che poi sono le cose che hanno sorpreso positivamente gli incaricati del Ministero dei Beni Culturali».
E qui passiamo dal tempo dell’orologio al tempo storico. Tu e Roberto avete sempre pensato anche a testimoniare l’enorme mole di lavoro attraverso le mostre e la pubblicazione dei libri. E alla fine è arrivato il riconoscimento ufficiale di “archivio d’importanza storico culturale ”. Non mi sembra affatto facile riuscire a muovere l’interesse del Ministero…
«Beh, ci sono state diverse visite e un’accurata analisi del lavoro che avevamo fatto e di quello ancora da fare. Così abbiamo vinto un bando e ci hanno dato una fornitura di materiali, di strumentazione e 2 persone che lavorano con me per realizzare un grande archivio elettronico: sono circa 300.000, anche qui fra negativi e diapositive. Loro avrebbero voluto anche le stampe, ma su quel punto ho tenuto duro, perché quelle rappresentano un valore che vorrei lasciare ai miei figli».
Giustamente Silvia pensa alla discendenza. Infatti ha già detto che preferisce guardare sempre avanti… Dopo una manciata di giorni di riposo in Trentino, sarà di nuovo a Milano, immersa in un mare d’immagini che fanno storia, anche la sua e quella di Roberto.