Erano gli anni dei Santana e del latin rock, di Oye Como Va e di Samba Pa Ti. Delle contaminazioni jazz-rock e della fusion. Dell’orgoglio della Raza messicano-americana, del Chicano Power e dei Brown Berets, l’organizzazione paramilitare californiana modellata sull’esempio delle Black Panthers. Della San Francisco che ancora respirava qualche refolo dell’inebriante Estate dell’Amore.

Era il febbraio del 1972 e nei negozi usciva il 1° album dei Malo, accolto con grande interesse anche in Italia per quel sound allora di moda e soprattutto per la presenza nel gruppo di Jorge Santana (1951-2020), il fratello minore di Carlos Santana. Che assomigliava all’eroe di Woodstock anche fisicamente (matassa di capelli neri, baffi,  pizzetto) e che suonava in modo simile al suo, tirando le note allo spasimo e premendo il pedale del wah wah.

Come i Santana di quei primi anni 70, anche i Malo sfoggiavano le twin guitars, 2 chitarre soliste suonate da Jorge e da Abel Zarate in dialogo fitto e continuo, ma erano un gruppo ancora più numeroso. 8 musicisti con i fiocchi: non solo chicanos di seconda generazione e bianchi, ma anche di origine portoricana e filippina, con il grintoso Arcelio Garcia Jr. alla voce solista; Richard Spremich alla batteria e Pablo Tellez (autore principale del repertorio insieme a Zarate e a Garcia) al basso; Richard Kermode al piano, al piano elettrico e all’organo; Luis Gasca prima tromba e flicorno; Roy Murray tromba, trombone, flauto e sax soprano. Variopinti, pittoreschi e meticci anche nel look, capelli lunghi da hippie californiani, baschi da street gang e canotte da bulli di quartiere.

Jorge Santana (1951-2020)

L’osmosi con i Santana e con altre band locali come i Sapo e gli Azteca era continua e bidirezionale, in un’epoca in cui i gruppi latin rock erano collettivi mutevoli e a porte girevoli: le fantastiche percussioni dell’album le suonavano 2 special guest santaniani quali Coke Escovedo (timbales) e Victor Pantoja (congas e bongos). Gasca, che con Kermode aveva suonato nella Kozmic Blues Band di Janis Joplin, era già comparso sul 3° Lp dei Santana mentre nella band di Carlos, durante le session di Welcome dell’anno successivo, sarebbe entrato anche il tastierista.

Ripensando a una ragazza di cui si era invaghito (non corrisposto) durante le lezioni di algebra al liceo, un altro timbalista, Richard Bean, aveva scritto con Tellez e Zarate il pezzo che avrebbe consegnato i Malo alla storia e che lui stesso interpretò come voce solista: Suavecito, una soave (appunto) smooth ballad sentimentale, liquida e sognante, con un coro suadente e inconfondibile e la stessa atmosfera incantata di Crystal Blue Persuasion di Tommy James & The Shondells, che il testo multilingue – strofe in inglese, inciso in spagnolo – aiutò a raggiungere un successo crossover: N°18 nelle classifiche americane d’epoca e una fama durevole rilanciata a livello internazionale da un riconoscibilissimo sample incluso nel 1999 nella hit Every Morning dei Sugar Ray.

Malo

Allora, nel 1972, pompava a tutto volume dai lowrider, le auto truccate a sospensione idraulica con cui i ragazzi del barrio si pavoneggiavano saltellando come delle molle impazzite ai semafori; e dalle radio AM nella versione edited accorciata di oltre 3 minuti che tagliava l’assolo di tromba di Gasca. Lo si poteva gustare invece sull’album, suonato dalle emittenti FM che spingevano gli Lp invece dei singoli e che a loro volta portarono in alto l’album: 31 settimane nella classifica pop di Billboard con un picco al N°14; 25 settimane e N°10 in quella R&B, mentre la fama della band si propagava anche in Centro e Sud America grazie anche all’impegno della major Warner Bros. Records.

Perché era chiaro che i Malo non erano degli one hit wonder, un gruppo da una botta e via: dentro quel disco che in copertina riprendeva uno splendido dipinto del pittore messicano Jesús Helguera (l’immagine mitologica del guerriero azteco Popoca e della principessa Izta, protagonisti di una tragica storia d’amore) si mescolavano chitarre rock e psichedeliche, travolgenti ritmi messicani, portoricani e afrocubani nonchè spettacolari fiati jazz/rhythm & blues sulla scia dei Chicago e dei Blood, Sweat & Tears, sapientemente orchestrati dal produttore David Rubinson (Santana, Herbie Hancock, Moby Grape, Taj Mahal). L’amore per la musica latina, per le percussioni lussureggianti, per il boogaloo e per la salsa esplodevano in Café, in Pana e in Nena, esuberanti e talvolta maliziose celebrazioni in lingua spagnola di temi tradizionali come il ballo, il divertimento e la bellezza femminile (nel 2012 le ultime 2 sono state riprese e aggiornate da Zucchero nell’album La sesión cubana) ecc ecc.

Lì e in tutto il disco affiorava il gusto per i break, per i cambi di atmosfera, per l’organizzazione dei lunghi brani (tutti di durata superiore ai 6 minuti) in movimenti: alternandosi fra momenti di dolcissima estasi e convulse accelerazioni latin/psichedeliche, Just Say Goodbye richiamava molto la struttura della santaniana Incident At Neshabur, mentre la conclusiva Peace era il brano “politico” del disco, con Garcia nei panni di un convincente shouter rhythm & blues e un intermezzo jazz a tempo di valzer che stemperava la rabbia del testo immaginando un mondo ideale e senza guerre.

Tra i 70 e i primi 80 continuarono con altri 4 album e qualche singolo di buon successo, i Malo, anche se oggi di loro sembra restare solo uno sbiadito ricordo. Non a Frisco e in California, non nella comunità chicana: che ancora oggi ascolta Suavecito alle compravendite di auto usate, nei party casalinghi, ai matrimoni e nelle quinceañeras, le feste di compleanno con cui si celebra il passaggio dall’adolescenza alla maturità delle ragazze 15enni di sangue messicano.

Malo, Malo (1972, Warner Bros. Records)