Usciva tutt’altra aria dal tubo di scappamento della macchina di latta. Meno affumicata dalla (pur validissima) sperimentazione, quasi ecologica nella sua purezza strumentale. David Bowie aveva richiamato a raccolta Reeves Gabrels (chitarra), Hunt Sales (batteria e voce) e Tony Sales (basso): a quasi 1 anno e ½ da Tin Machine ecco Tin Machine II, a fine 1989 pressochè pronto  in quel di Sydney, Australia. Avrebbe dovuto guadagnare l’uscita nei negozi a conclusione del Sound + Vision Tour, nell’autunno del 1990, ma Bowie aveva deciso di annullare il contratto con la EMI passando alla multinazionale giapponese JVC che si era affrettata a lanciare la Victory Music.

Come nel 1°, anche nel 2° capitolo marchiato Tin Machine che viene ripubblicato in silver coloured vinyl – edizione limitata di 5.000 copie numerate – e in formato Cd (l’immagine di copertina creata da Edward Bell con le statue greche dei Kouroi è quella con gli attributi bene in vista, censurati invece nell’edizione americana) si riannodano i fili del rock anni 60 e 70 con ideale riconnessione alle atmosfere del bowiano The Man Who Sold The World; ma dipingendo, stavolta, tinte sonore meno crude; aprendo a un ventaglio più ampio di stili e frenando, ove necessario, l’ego chitarristico di Reeves Gabrels. Si mette insomma a plasmare, il quartetto “caliente“, un pugno di pezzi realmente efficaci.

Tin Machine: David Bowie, Hunt Sales, Reeves Gabrels, Tony Sales

Chi come il sottoscritto ha familiarità con questo disco che fa calare il sipario sulla breve eppur fondamentale avventura dei Tin Machine, lo considera una gemma trascurata o in ogni caso sottovalutata. Effettivamente la reputazione di Tin Machine II è aumentata piano piano, col trascorrere degli anni: tant’è che la rivista Uncut lo ha inserito nella lista dei 50 Great Lost Albums definendolo semplicemente “extraordinary“. Bontà dei 13 pezzi in scaletta, a iniziare da un rock & roll con le palle, sostenuto da un drumming secco e dalla voce di Bowie che è un viaggio stratosferico nel glam. Si intitola Baby Universal e nel bel mezzo del percorso snocciola un a solo di Gabrels che ricorda l’Adrian Belew degli ultimi King Crimson. La intro chitarristica ferrosa e industrial di One Shot prelude invece a un rock arioso con un furbo ritornello a rammentare gli Who, mentre una chitarra acustica dal timbro spagnoleggiante contrappuntata dal sax svela un Bowie – quello di You Belong In Rock’n’Roll – dalla voce calda, profonda, nello stile di Elvis. Il refrain, e non è un azzardo, fa riaffiorare alla memoria il Willy De Ville di Cabretta e di Return To Magenta. Splendido.

Si prosegue con If There Is Something, rivisitazione del pezzo forte dei Roxy Music datati 1972. Se in quei solchi era un pastiche cabarettistico, qui è art rock affilatissimo dalle svisate metal (dove originariamente c’era il sax di Andy Mackay). David Bowie non può che gigioneggiare alla Bryan Ferry ed è molto più di un affettuoso omaggio. Tutt’altra storia con Amlapura, palese viaggio a ritroso nel tempo che rincorre l’introduzione acustica di Space Oddity. Ma ancor più evidente è il tocco che rispolvera An Occasional Dream. Poi, via libera alla psichedelìa.

It’s My Life Tour, Brixton Academy, 1991

Ideale colonna sonora per una spy storyBetty Wrong invita ad ascoltare Bowie che soffia dolcemente nel sax per poi concedersi timbri vocali da crooner. Ritornello avvincente, memorizzabilissimo, antitetico al funky obliquo e dissonante di You Can’t Talk: gioiellino che sfodera certi dribbling sul filo dell’avanguardia (in particolare African Night Flight) racchiusi nell’album Lodger. E dietro l’angolo, inevitabilmente, spuntano i Talking Heads. Affidata alle corde vocali screpolate di Hunt Sales – mentre Gabrels si mette a fare lo “slowhand” futurista fra giochi di Hammond e sax – Stateside è una gradita sorpresa all’insegna del blues ruspante. E se Shopping For Girls con quel titolo in stile Sparks è una ballad urbana dall’incedere bislacco e visionario, A Big Hurt si merita solo 3 parole: hardcore, punk, metal con il bonus di un paragone immediato: Stop! dei Jane’s Addiction.

Sorry, che affidata al canto di Hunt Sales potrebbe essere la Wild Eyed Boy From Freecloud del futuro; Goodbye Mr. ED, introduzione acustica e una nostalgia (canaglia) per l’elettrico anni 60 e Hammerhead, sfizio strumentale nello stile dei Roxy Music con sassofono e chitarra elettrica a lanciare la volata, chiudono l’album. Che se per caso non l’avete ancora scoperto, vergognatevi almeno un po’, pentitevi e correte ad acquistarlo as soon as possible.