Ray Davies ci ha passato una vita, a litigare con l’industria discografica (oltre che con il fratello Dave). A contemplare passato e presente e a sentirsi diviso in 2, un inglese tutto d’un pezzo inesorabilmente attratto dall’America. Si sentiva così anche all’inizio degli anni 70, quando sciolto il lungo e contrastato sodalizio con la Pye Records, lui e i Kinks firmarono un nuovo contratto con la RCA aprendo un nuovo capitolo e sfornando subito 2 dischi, Muswell Hillbillies (1971) e il doppio Everybody’s In Show-Biz (1972), da pochi giorni tornati nei negozi su Lp, su Cd, in un doppio Cd contenente entrambi i titoli o in un box set superdeluxe con libro rilegato, molto materiale aggiuntivo spalmato su 6 Lp, 4 Cd e un Blu-ray video e gadget assortiti (una mappa dei siti londinesi del gruppo, 6 foto e 1 badge).
Sulla soglia dei 27 anni era già un veterano che osservava con malinconia il disfacimento della vecchia Inghilterra e la sua transizione a una modernità che lo inquietava. Sentiva contemporaneamente il richiamo degli Stati Uniti, che finalmente avevano riaperto i confini al suo gruppo dopo averlo bandito per 4 anni a seguito di una causa intentata da un promoter e di comportamenti non irreprensibili sopra e fuori dal palco. Come il Rod Stewart (vecchio compagno di scuola) della copertina di Atlantic Crossing, stava a cavalcioni tra i 2 continenti: un piede nella vecchia Europa e uno nel nuovo mondo.
The Kinks
Muswell Hillbillies incarnava quella duplicità fin dal titolo: Ray e Dave, allora 24enne, erano cresciuti in una famiglia numerosa a Muswell Hill, quieto e alberato quartiere della Londra settentrionale in cui i genitori erano stati costretti a trasferirsi dopo le devastazioni della guerra. Di estrazione e cultura operaia, coltivavano sogni di fuga e si erano appassionati al country & western americano come fossero degli autentici hillbillies, i montanari degli Appalachi. Vedevano disgregarsi la comunità in cui erano cresciuti sotto i colpi di ruspe e bulldozer e dei progetti di riqualificazione urbana; e i vecchi pub come la Archway Tavern ritratta in copertina (distante qualche miglio da casa loro) diventavano il simbolo di un rifugio e di un vecchio stile di vita che provava a resistere. Di questo avrebbe dunque parlato il loro nuovo disco “tematico”, a dispetto delle pressioni della casa discografica che si aspettava una nuova Sunday Afternoon, una nuova Waterloo Sunset, una nuova Lola. Si ritrovò fra le mani, invece, un album senza singoli (almeno in Inghilterra): «Un disco strano», ammise Dave Davies, «radicato nel nostro retroterra londinese ma con le implicazioni emotive, e gran parte della strumentazione, del blues americano».
Mescolato in un cocktail ad alta gradazione alcolica al country, al pub rock di pura marca britannica, al vaudeville che stava da sempre nel cuore di Ray e a quel jazz tradizionale degli anni 20 e 30 che evocava piccoli club fumosi e momenti migliori. Conosciuti suonando nei locali, il trombettista Mike Cotton e altri 2 componenti della sua band, John Beecham al trombone e alla tuba e Alan Holmes al sax e al clarinetto, coloravano di tonalità color ruggine 2 canzoni sincere e brutali nei loro risvolti autobiografici come Acute Schizophrenia Paranoia Blues e Alcohol, quasi un numero da cabaret che cercava di mettere in burla una realtà preoccupante e sotto gli occhi di tutti (non solo i fratelli Davies ma anche il bassista John Dalton, il batterista Mick Avory e il tastierista John Gosling ci davano dentro con la bottiglia).
Come il Brian Wilson di I Wasn’t Made For These Times, Ray si sentiva un uomo d’altri tempi inadeguato alla contemporaneità, che in 20th Century Man si professava luddista e nemico delle macchine in un crescendo di rabbia e di intensità, il delicato arpeggio di chitarra acustica introduttivo che lasciava spazio a power chords degni degli Who nella trascinante parte finale: perché non sia diventata anch’essa un singolo di successo (uscì come 45 giri negli Stati Uniti, dove però si fermò ai margini della Top 100) rimane un mistero. Lì e in altre canzoni la slide di Dave bilanciava il timbro British degli ottoni spostando l’asse del disco verso gli States, fra il rock and roll anni 50 di Skin And Bone e il rock blues elettrico di Complicated Life: canzoni che parlavano del desiderio di adeguarsi ai nuovi canoni estetici e di profonda miseria.
Davies non aveva perso il suo acuto senso di osservazione: nel music hall un po’ ubriaco di Holiday descriveva le vacanze sfigate di una classe operaia inglese orgogliosamente determinata a conquistarsi la sua piccola fetta di spensieratezza e di divertimento; in Here Come The People In Grey, un altro rock blues, l’ineluttabilità kafkiana dello strapotere della burocrazia e degli uomini vestiti in grigio; in Holloway Jail le disavventure di chi per sopravvivere praticava la microcriminalità. Tra il piano e la fisarmonica di Oklahoma U.S.A. prendevano forma progetti di fuga e sogni hollywoodiani che anticipavano un tema centrale dell’album successivo, mentre nella filastrocca vecchio stile di Have A Cuppa Tea e nel blues pigro di Uncle Son si materializzavano le sagome reali di figure familiari: una bisnonna premurosa e convinta che una tazza di tè potesse risolvere ogni genere di problema e uno zio che era il ritratto di un rassicurante uomo qualunque. In chiusura di disco, il country rock di Muswell Hillbilly congelava l’attimo in cui l’autore salutava i vecchi amici e seguiva la famiglia nella nuova dimora, promettendo a se stesso di non cambiare, cockney orgoglioso che aveva nel cuore “la vecchia West Virginia” e che pur non essendo mai stato a New Orleans, in Oklahoma o in Tennessee sognava un giorno di vedere le Black Hills.
Di lì a poco i tour oltre Oceano gli avrebbero permesso di sovrapporre l’America reale a quella immaginata, e i 10 inediti inclusi in Everybody’s In Show-Biz (un album meno caratterizzato nel suono e meno organico del precedente, con 2 facciate live e 2 in studio) sarebbero state il suo diario di viaggio, concepito come accompagnamento sonoro a un film documentario subito accantonato dalla casa discografica. Il suo epilogo – la struggente ballata Celluloid Heroes, tema conduttore dell’ipotetica colonna sonora in questa edizione riproposta anche in un nuovo remix – è forse l’ultimo grande capolavoro della discografia dei Kinks: «Probabilmente il nostro maggiore successo tra i pezzi che non sono diventati dei successi», ha sintetizzato Dave Davies, in cui le star immortalate sulla Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard e citate nel testo (Greta Garbo e Rodolfo Valentino, Bela Lugosi e Bette Davis, Marilyn Monroe e Mickey Rooney) diventavano il simbolo di un consolatorio mondo di fantasia; una realtà parallela in cui i sogni si avverano e gli eroi non muoiono mai. Troppo lunga, con i suoi 6 minuti e più, per i dj delle radio che gli preferirono un brano dal peso specifico decisamente inferiore come Supersonic Rocket Ship, scherzoso numero calypso con una steel drum in sottofondo che ben esprimeva lo spirito egualitario e anticlassista dell’autore.
Un tono molto easy caratterizzava anche Motorway, un ironico lamento a ritmo country & western sul cibo spazzatura che i musicisti sono costretti a ingurgitare nelle stazioni di servizio delle autostrade; e la spensierata Hot Potatoes, un inno alle cose semplici della vita. Le metafore gastronomiche venivano utili in Maximum Consumption per descrivere le pressioni e l’usura della vita da rock star, temi ricorrenti anche in Look A Little On The Sunnyside (un attacco sardonico alla critica musicale e all’industria discografica) e in una Unreal Reality in cui Davies descriveva la condizione illusoria del musicista di successo, eseguite da una band che sembrava avere preso a frequentare la Preservation Hall, il tempio del vecchio jazz americano nel quartiere francese di New Orleans. Here Comes Yet Another Day e You Don’t Know My Name erano forse gli unici momenti rock di una scaletta in cui l’altro pezzo forte era Sitting In My Hotel, una ballata quasi lennoniana in cui Ray cantava la sua solitudine in tour e la nostalgia di casa contemplando da una finestra (come in Waterloo Sunset) lo scorrere sotto di lui della vita quotidiana.
La sua esistenza e quella dei Kinks erano profondamente cambiate. E così i loro concerti, sempre meno rock e sempre più teatrali, come testimonia il disco dal vivo del doppio Lp, registrato tra il 2 e il 3 marzo del 1972 nella prestigiosa Carnegie Hall di New York. Il piano di Gosling conquistava più spazio, così come il trio fiatistico di Cotton, mentre la chitarra solista di Dave restava più nascosta, prendendosi i suoi spazi soprattutto nelle reinterpretazioni di pezzi come Top Of The Pops (con un accenno a Land Of A 1,000 Dances, standard soul) e Brainwashed: circa metà dei pezzi in scaletta proveniva da Muswell Hillbillies, la cover di Baby Face, classico Tin Pan Alley, era un altro richiamo al jazz degli anni 20 e il breve e sconclusionato accenno a Banana Boat Song serviva solo a far cantare il pubblico come una Lola monca e tirata via in tutta fretta.
Rock e chitarre, in Everybody’s In Show-Biz, sono in disparte; e Davies sr dovrà smaltire la sua sbornia per le opere concettuali e le pièce teatrali prima di decidersi di “dare alla gente ciò che vuole” (Give The People What They Want sarà il titolo esplicito di una canzone e di un album del 1981). Intanto, però, a vederli alla Carnegie Hall erano accorsi i personaggi più coloriti della Grande Mela («La prima fila sembrava interamente occupata da drag queen», ricorderà Ray) e personalità illustri come Lou Reed e Alice Cooper, Keith Moon e Andy Warhol con la sua corte al seguito. I Kinks erano di nuovo hip e alla moda, la comunità artistica li accoglieva a braccia aperte e alla fine del decennio avrebbero finalmente coronato il vecchio sogno, riempiendo le arene e conquistando il successo mainstream negli Stati Uniti.