Tra i grandi gruppi rock dei tardi anni 60, i Mountain sono forse quelli più dimenticati. Il loro sound, un rock blues piuttosto “heavy”, appare piuttosto datato ma ancora godibile. La loro vita è stata breve e travagliata. Il deus ex machina era Felix Pappalardi (1939-1983), ex produttore dei Cream, che dopo lo scioglimento del gruppo decise di riprovare la formula chitarra – basso rimettendosi in gioco.
Nessuno (credo giustamente) lo ha mai collocato fra i grandi virtuosi del basso, ma vale la pena spendere qualche parola riguardo al suo stile. Pare sia diventato sordo – prima di essere ucciso per motivi di gelosia dalla moglie Gail – per colpa del volume eccessivo del suo strumento durante i concerti. Non so se sia vero o una leggenda metropolitana, ma se ascoltate il capolavoro dei Mountain, l’album dal vivo intitolato The Road Goes Ever On (1972), noterete subito un basso super amplificato, riguardo al quale non sapremo mai se l’effetto fosse voluto oppure un errore, che ci permette di distinguere le possenti linee portanti dei brani dimostrando che Leslie West (1945-2020) era il virtuoso del gruppo poiché la sua grintosa e potente chitarra elettrica poteva tranquillamente riposare sulla solidissima base ritmica che gli garantiva Pappalardi. Per sincerarsene basta ascoltare un brano come Crossroads. Pappalardi non fa nulla di più di quello che farebbe un buon bassista, ma la sua essenzialità è parte del suono dei Mountain allo stesso modo della chitarra hard blues di West, tanto più virtuosistica.
Tuttavia, il disco live si è rivelato il loro canto del cigno. La storia della formazione newyorkese aveva beneficiato di una prima fase di rilevanza nazionale al Woodstock Festival del 1969, dove si era fatta apprezzare con Southbound Train, sulfureo rock blues dal riff accattivante. La voce roca e negroide di Leslie, unita alla potenza bassistica di Felix, hanno reso i Mountain la band ideale per le esibizioni dal vivo; e il livello non è diminuito nelle successive produzioni in studio. Nantucket Sleighride del 1971, un canto dedicato all’epopea delle baleniere che avevano la loro base nell’isola a sud di Cape Cod, riesce ad esempio a fondere la voce strascicata di West e i suoi malinconici giri di chitarra, con repentini cambi di tempo che si apprezzano sia nella versione in studio (più pulita), sia in quella dal vivo (più possente) fra i solchi di The Road Goes Ever On.
Pappalardi (basta leggere i credits dei dischi) era il compositore principale dei pezzi migliori del gruppo; e che ne fosse il demiurgo lo dimostra il fatto che i Mountain si sono sciolti quando lui ha deciso di lasciare. Il motivo, mai del tutto chiaro, potrebbe essere il risultato di una serie di concause: il bassista amava di più stare nel backstage che sul palco e di conseguenza la vita di una rock band spesso in tour non faceva per lui. Inoltre, non poteva andare d’accordo con Leslie West che era un alcolista e un drogato. Quest’ultimo, però, ha tentato di dare nuova vita ai Mountain con Jack Bruce al posto di Felix: cambio in teoria azzeccato, poiché Bruce era tecnicamente più valido e musicalmente più versatile, dati i trascorsi post Cream nel jazz rock. Ma la personalità di West, nel nuovo trio, era più debordante che nei Mountain e nei 2 Lp realizzati in studio, Climbing! (1970) e Nantucket Sleighride (1971).
West, Bruce e Laing non hanno granchè goduto di buona stampa qui in Italia, ma ciò si spiega con la tendenza negli anni 70 a privilegiare il progressive o lo sperimentale. L’impressione, oggi che è passato un mucchio di tempo, è che ci fosse prevenzione verso il rock blues poiché soprattutto i brani di Why Dont’cha, l’Lp di debutto del trio, ci offrono un’energetica dose di ottima musica americana, ancora oggi gradevole e da considerare come un qualcosa di ormai classico.