La nuova versione restaurata di Suspiria ribadisce a gran voce ciò che gli amanti del capolavoro di Dario Argento sanno da tempo: non si tratta solo di un film ma di una vera e propria esperienza estetica che coinvolge lo spettatore in modo profondo e viscerale, portandolo in quella zona liminale in cui la narrativa dell’orrore restituisce all’impianto della fiaba le sue origini più cruente e spietate. Un lavoro che ipnotizza e ottunde i sensi, mescolandoli nell’amplesso che vede intrecciarsi una fotografia sgargiante, spinta, eccessiva a una colonna sonora cupa, sinistra e ossessiva.

Non è un caso che Stefania Casini, ospite d’onore durante la proiezione al Cinema Beltrade di Milano lo scorso 12 febbraio (47 anni esatti dopo la sua uscita nelle sale), definisca Suspiria «un’opera rock» a ribadirne il valore di narrazione evocativa, carnale, potentissima. Il restauro, restituito alla magìa della sala nella sua versione originale, vede in prima linea Luciano Tovoli, direttore della fotografia che all’epoca aveva affascinato Dario Argento con l’idea di fare del film una vera e propria opera pittorica e si basa sul casuale, rocambolesco ritrovamento di una copia del 1977 «in un cinema di Chicago, nascosto in un sottoscala… con la targhetta Technicolor, completamente sigillata», come conferma Stefania Casini a fine proiezione, che al suo profilo di attrice, critica, giornalista, sceneggiatrice e regista aggiunge anche notevoli doti di storytelling.

Stefania Casini
© Paolo Bertazzoni

SINFONIE PER GLI OCCHI E DIPINTI SONORI

Il film, come già detto, si configura come una vera e propria esperienza estetica a partire dalla fotografia. Questo perché al geniale espediente di utilizzare velluti rossi, blu e verdi per filtrare le luci (idea del succitato Tovoli) si accompagna una resa dei colori dal forte impatto visivo, emotivo, evocativo. Rosso, nero, bianco, come le 3 tipologie di magìa per antonomasia che definiscono tanto gli esterni degli edifici quanto le loro parti più nascoste, in un percorso che sembra fare della narrazione un processo di trasmutazione alchemica.

Il sangue, elemento primigenio della vita che nel suo fluire copioso dai corpi delle giovani vittime celebra la sua sgargiante, liquida transitorietà, si riflette nelle luci che compaiono sopra alle porte, sulle facciate dei palazzi, nel pallido incarnato della protagonista Susy Benner, interpretata da una magistrale Jessica Harper. Un impianto nel quale trova spazio anche la suggestiva capacità di innescare una sorta di cortocircuito sensoriale, che in più di un’occasione sembra attribuire un carattere “tattile ” alla vista, come nel caso delle pareti in velluto blu che tappezzano l’interno dell’accademia di danza (principale luogo deputato della storia), i cui rilievi sembrano uscire dalla pellicola per essere “accarezzati ” dagli occhi.

Jessica Harper

E ancora, le virate in blu che inghiottono la povera Sara (un’altrettanto magistrale Stefania Casini) come il ventre di una notte eterna, quella che non lascia in pace nemmeno le anime (e i volti) dei morti, contribuiscono alla definizione di un colore che si stacca dallo sfondo per diventare ambiente, spazio vivo dell’azione. Si aggiunga poi a questo l’intreccio di brani, commenti sonori e voci che concorrono analogamente a creare un ambiente acustico altrettanto carico di tensione, suspence, vivido terrore. In questo senso, in prima linea troviamo i brani realizzati dai Goblin che con lo zampino di Dario Argento (come recitano i titoli di coda) inseriscono nella dimensione del Progressive quella del folklore e dei canti tradizionali.

Una ricerca sintetizzata dal tema principale del film, in cui l’utilizzo del bouzouki (cordofono della tradizione greca) si fonde a una nenia cinque/secentesca intitolata Le tre streghe sull’albero, resa ancora più inquietante dai sinistri sussurri di Claudio Simonetti. Un’idea sonora che associa alla dimensione del perturbante quella ritualistica, insistendo spesso sugli elementi percussivi della musica, mìmesi dell’abbandono estatico delle baccanti e delle streghe nei sabba (perché è di streghe che si parla, in Suspiria). E ancora cori, voci notturne, angosciosi sospiri che non mancano di arricchire la partitura di una sinfonia del terrore, le cui note danzano come lame sulla carne dei personaggi che non riescono a sottrarsi al loro appuntamento con la morte.

FIABE NERE E RIFERIMENTI LETTERARI – LA PLASTICITÀ DELLA MORTE

Ciò che ancora oggi rende Suspiria un capolavoro della narrativa orrorifica cinematografica è la materia letteraria a cui attinge, che farebbe in primo luogo la felicità di Vladimir Propp (1895-1970), linguista e antropologo russo che con le sue 31 funzioni ha individuato le chiavi di costruzione della fiaba e per estensione di molte altre formule narrative. Questo perché, come confermano Stefania Casini e Alessandro Tavola di Cat People (cui va l’onore della distribuzione), Dario Argento voleva sostanzialmente riscrivere l’iconica Biancaneve disneyana trasponendola nel cuore di quella Foresta Nera che attraversando la parte sud occidentale della Germania si configura allo stesso tempo come luogo reale e spazio atemporale, indefinito, tipico della fiaba. Una storia nella quale l’impianto narrativo fiabesco, che contrappone a un male profondo e atavico l’impavida determinazione dell’eroe (la ballerina Susy Benner), diventa allo stesso tempo ricerca antropologica e raffinata citazione letteraria.

Da un lato, infatti, la sceneggiatura beneficia delle conoscenze in ambito magico ed esoterico di Daria Nicolodi e di un discreto numero di interviste condotte “sul campo ” da Dario Argento a persone legate al mondo dell’occultismo; da un altro invece, il film “evoca ” a più riprese il nome dello scrittore britannico Thomas De Quincey (1785-1859). È infatti nel suo Suspiria De Profundis che si parla delle Nostre Signore dei Dolori: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum, protagoniste della cosiddetta Trilogia delle Madri a cui il regista romano non pensa ancora, nel 1977, ma che in seguito completerà con le pellicole Inferno (1980) e La terza madre (2007). Un riferimento esplicito al quale segue, a livello implicito, il De Quincey di L’assassinio come una delle belle arti, se si considera il piglio con cui Argento sembra ricercare, inquadratura dopo inquadratura, un canone estetico che definisca l’armonia e la plasticità delle morti.

Il palazzo in Burgstraße 4, a Monaco di Baviera
© Paolo Bertazzoni

Si pensi a questo titolo al “quadro ” che ritrae il corpo martoriato di Sonia (Susanna Javicoli) all’inizio del film, in un tripudio optical di rossi, bianchi e neri che fanno da eco visiva alle pareti del sinistro palazzo in Burgstraße 4, ancora oggi visibile a pochi passi da Marienplatz (gli esterni sono stati ripresi in gran parte a Monaco di Baviera). Una spaventosa ricerca del bello dove si incanala anche la scena in cui il pianista Daniel (Flavio Bucci) incontra la morte: una folata di vento, un semplice sfarfallìo di ombre ed ecco che la quiete sospesa di una piazza dechirichiana (Königsplatz, sempre a Monaco di Baviera) si trasfigura in una dimensione infernale, gotica e spettrale. Un persistente senso di minaccia, di precarietà e incertezza attraversa tutto il film: lo stesso che porta Argento a far montare le maniglie delle porte a un’altezza tale da spingere le attrici sulle punte dei piedi, per poterle aprire.

Alida Valli e Flavio Bucci

È in questo semplice gesto che lo spettatore esperisce la fragilità delle protagoniste: quella che si prova durante l’infanzia, quando ci si sente “piccoli ” di fronte a un mondo di adulti, che in Suspiria acquisisce connotati oscuri, terribili, in perenne agguato. Una bellezza che si muove sul filo di un’eleganza perversa, magistralmente incarnata dai volti di dive quali Alida Valli (la perfida Miss Tanner) e Joan Bennett (Madame Blanc), con cui il regista omaggia l’idea di un cinema perduto, romantico, idealizzato. Una partitura visiva, in cui bellezza, ambiguità e sadismo si contendono i lineamenti di attrici quali Barbara Magnolfi (Olga) e che sintetizzano la magìa che si instaura fra regista, attori e macchina da presa. Perché, per parafrasare le parole di Stefania Casini, negli occhi del regista c’è già tutto: la storia che si è immaginato, che ha visto svolgersi fotogramma dopo fotogramma, i confini del mondo in cui la vita e la morte dei personaggi entrano in contatto con i sussulti del pubblico.