Sono venuto a passeggiare sul lungomare. Ha piovuto tutta la notte. Fa freschino. Non c’è nessuno. Se esiste un luogo che intristisce, quello è il lungomare senza nessuno. Però io non sono triste. A tratti provo una curiosa sensazione: mi rendo conto di portarmi dietro qualcuno di cui non so nulla. Ma è una sensazione fugace. Per fortuna passa subito. Respiro a pieni polmoni un’aria umida e magra che, a detta del dottore, dovrebbe fare un gran bene alla bronchite che mi accompagna stretta al petto da giorni. Per questo sono scappato via da Milano all’improvviso, senza dirlo a nessuno. Cammino lungo la passeggiata a mare. Sbando, un po’ scomposto. Come capita nei momenti d’incipiente scoglionamento. Non circola un’anima, ma l’ho già notato. C’è una trattoria, più avanti, protesa sul mare. Di quelle sistemate su palafitte, col bagno sotto e le cabine e tutto il resto che ora è assente per via che non è stagione. Lancio un’occhiata al mare. Scorgo una bottiglia di plastica buttata sulla rena. La sabbia è scura, ancora impregnata dall’acqua risalita stamattina con la forte risacca che è arrivata fino ai primi pali conficcati nel terreno.
Il cielo è grigio, ventoso, con nuvole buie che si accalcano verso occidente. La bottiglia di plastica pare sporca di sabbia. Dalla mia posizione sembrano pezzettini di merda frantumata dai marosi. È vuota, la bottiglia, apparentemente senza coperchio. Alla distanza dalla quale mi trovo a osservarla, ricorda vagamente un corpo nudo di donna disteso sulla rena, con i rigonfiamenti superiori simili a un petto sfatto. E la linea mezzana che si restringe a somiglianza di un girovita imbrigliato da una stretta cintura. Più sotto il bacino, piuttosto pieno e quasi informe. Non scorgo gambe. Una donna forse morta, forse stuprata sulla sabbia umida con le sue nude rotondità esposte all’occhio di chiunque le transiti accanto. Un occhio svelto che non perde tempo a osservare un mezzo corpo di donna senza vita buttato sulla sabbia bagnata non farebbe una piega, forse. Sposterebbe subito l’attenzione altrove a cercare soggetti meno imbarazzanti. Forse.
Penso che è arrivata dal mare stamattina presto. Un relitto tra le forti braccia della risacca che l’hanno rigettata a terra come un corpo estraneo che appartiene a un altro mondo.
Decido di avvicinarmi. Sono incuriosito. Fatico a inoltrarmi coi mocassini che sprofondano nella rena. Ricorda un percorso di sabbie mobili.
Ecco. Adesso che le sono quasi sopra la vedo per quello che realmente è: una bottiglia di plastica trasparente, vuota, senza coperchio e priva di etichetta. Anonima. La donna che mi sono inventato nella testa qualche istante fa è diventata una bottiglia vuota di plastica trasparente. Mi chino. La raccolgo. La scuoto per liberarla da quella renella scura, sminuzzata, che ricorda di nuovo una sorta di merda finemente frammentata. La reggo nella destra, il dito medio infilato nell’angusto opercolo senza coperchio. In un primo tempo stavo per pensare alla parola orifizio, ma l’ho cassata subito. Opercolo suona più tecnico come termine, meno allusivo. Se penso a un orifizio scorgo subito un buco di culo o, in alternativa, ma neanche tanto, all’ingresso di una stretta vagina. Sono sensazioni più che parole, che mi pare di sentire fisicamente, più che pensarle. Però le percepisco strette intorno al dito che è penetrato per metà nell’opercolo. Quasi una specie di utero materno dove gradisco trovarmici.
M’incammino. Risalgo fino alla strada e ne vedo parecchie di bottiglie di plastica stravaccate sul terreno e, di nuovo, associo il pensiero alle tante donne stuprate in questi ultimi tempi. E l’idea mi fa quasi male e percepisco la nascita di una smorfia intorno alle labbra. Nel frattempo mi gingillo la bottiglia vuota nella mano e non so francamente che cosa farne, quando scorgo qualcuno che mi osserva dall’altro lato della passeggiata. È una donna. Non male. Una mora con tanti capelli riccioluti. Scura. Occhi grandi e neri. La guardo. Mi guarda. Poi si avvicina con passo lento. Ce l’ho davanti e noto una discreta cicatrice che le riga una guancia. La destra.
«Ho notato che pensava a qualcosa che pensavo anch’io nello stesso momento. Significa…», esordisce.
Possiede una bella voce, di quelle che piacciono a me. Bassa, forse calda. Non le noto alcun accento.
«Come fa a dire che pensavamo alla stessa cosa?».
«Ce l’aveva scritto sulle labbra il suo pensiero. E poi osservava tutte quelle bottiglie di plastica con un’espressione…».
«La canzone diceva: “te lo leggo negli occhi” e intendeva più o meno la stessa cosa».
«Appunto».
«Allora dovrei leggere la stessa cosa in lei».
«La legge?».
«Forse, anche se le sue labbra non parlano. Però gli occhi sì».
Sorride. Ha denti bianchi e stretti.
«Siamo comunque d’accordo», aggiunge.
«Su che cosa?».
«Sul fatto che le bottiglie di plastica vuote devono stare nei cestini. Ce n’è uno proprio là…».
«Ah, davvero ? Io pensavo che è come averci dei cadaverini di donne sparsi sul terreno».
«Come?».
«Come piccole donne stuprate e poi uccise».
«Ecco ciò che avevo capito dalla sua smorfia di poco fa!».
«Anch’io l’avevo capito dal suo sguardo di poco fa!».
Fa un passo avanti verso di me.
«Senta…», dice.
«L’ascolto».
«La mezza è appena passata», afferma spiando l’orologio che porta al polso.
«Davvero?».
«Il bagno Mirasole che le sta quasi di spalle ha anche un’ottima cucina. Lo so per certo».
«Perché?».
«È mio e io sono una brava cuoca».
«Davvero?».
«Certo», risponde. Quindi aggiunge:
«Oggi abbiamo un fritto misto che levati… Vuole favorire ?».
Ho fame. Me ne sono accorto dalla produzione di saliva che è improvvisamente aumentata insieme alle sue parole. Certo che se la manfrina che ha inscenato aveva come obiettivo la cattura di un cliente per il suo ristorante, è una bella slandra.
«Favorisco con piacere», rispondo comunque. Vedremo.
Sorride. Mi precede fino all’ingresso del ristorante che è una semplice trattoria di mare.
«Naturalmente non pretendo che mi offra un pranzo per onorare qualche bottiglia di plastica abbandonata sul lungomare», le mormoro entrando dietro di lei.
Si ferma. Il profumo di fritto misto che svolazza per l’aria è entusiasmante. Mi guarda seria in volto.
«È semplicemente perché quella bottiglia di plastica scaricata al suolo come un piccolo corpo di donna senza vita ci ha ricordato la stessa cosa».

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, segnaliamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016) e Un coltello di ceramica verde (2018).