Oltre il bianco sterrato del vicolo, oltre un muretto di cinta altrettanto bianco, dentro il giardino della villa accanto un cane ululava. Ululava proprio. Non era un guaito o versi di un cane arrabbiato, spaventato o simili. Sembrava un vero, disperato dolore. A spaccagola si direbbe di un essere umano ferito a morte. Ululava sbattendosi violentemente dentro un groviglio di cespugli mossi e rami spezzati. A tratti pareva di udire, frammezzato allo strazio del cane, una sorta di cupo grugnito, intermittente, emesso da una grande massa che gli gravava a ridosso o addirittura sopra. Nonostante aguzzassi vista e orecchie non riuscivo a scorgere altro nel buio della notte nel fitto del verde al di là del muretto. Saranno state le 2 del  mattino e le urla straziate di quel cane mi avevano svegliato di soprassalto. Il fatto, inspiegabile e spaventevole, mi causò un bel po’ di agitazione. Ciò che sapevo del cane (l’avevo intravisto un paio di volte uscire dalla villa al guinzaglio di una ragazza con un bel culo) è che si trattava di un cocker piuttosto giovane, a prima vista. Di pelo ricco e fulvo. Una roba simile a del cognac annegato in una coppa posta controsole. Abbaiava per abitudine a chiunque transitava lungo lo sterrato che fiancheggiava la villa. Ne udivo il giovane latrato che bucava le foglie e i cespugli. Era una specie di saluto. Ora no. Era tutt’altro.
Poi, di colpo, ogni rumore dall’interno cessò. Trascorsero alcuni secondi seguiti da voci spezzate di persone apparentemente entrate nel giardino. Erano più d’una e sembravano in preda all’agitazione.
«Adesso ci penso io!», strillò qualcuno.
Poco dopo si udì un colpaccio duro e forte levarsi del giardino. Un colpo di fucile, ci avrei giurato. Quindi un secondo colpo, identico al primo. Infine, al di là di scomposti fruscii e acutissimi grugniti, tornò il silenzio seguito dal trapestio di scarpe che rientravano nella villa.
L’indomani mattina il mio vicino di casa mi bloccò sulla porta del cortile.
«Ha sentito che baccano stanotte?».
«Era il cane del vicino», risposi.
«Adesso non abbaia più…», fece lui, «…e neanche domani e dopo».
«Perché?».
«È stato sbudellato per bene».
«Sbudellato?».
«Un cinghiale. Grosso mica male. Sarà stato sugli 80».
«80 che cosa?», chiesi, anche se avevo capito. È che mi irritava la sicumera di quel bifolco.
«80 chili, no?».
«Come lo sa?».
«Se esce sullo sterrato lo vede. Lo ha fatto secco il vecchio proprietario della villa, cacciatore da sempre. Ora aspettano il veterinario provinciale e anche i carabinieri. Lo porteranno via per le analisi sanitarie. Poi se lo potranno riprendere per farne prosciutti e salsicciotti».
«E il povero cocker?».
«Era un piccolo cane bello e coraggioso. Ha tenuto testa a un cinghiale 5 volte più grosso di lui. Non è la prima volta che calano al piano da quelle colline là dietro a razzolare negli orti. Lo hanno sistemato in fondo al giardino sotto l’albero del pepe, se alza gli occhi lo vede anche da qui. Poi lo seppelliranno proprio là dove l’hanno disteso e chi s’è visto s’è visto. Magari ne prenderanno un altro più grande».
Intanto eravamo usciti sullo sterrato, lui dietro di me. Il corpaccio del cinghiale stava laggiù, presso il muro di cinta della villa, slungato sulla ghiaietta bianca: una grande massa grigiastra tirata per lungo sul bianco accecante dello stradino. Aveva 2 enormi buchi appena sotto il collo dai quali colava un filo di sangue coagulato fino al terreno, dentro una bella pozza ormai nera come catrame.
«Ma quelli non mi sembrano i fori provocati da una rosa di pallini da caccia!», mi scappò detto.
«Da queste parti i cacciatori usano anche i pallettoni. Certo che è una bella bestia, eh?».
Si chinò a osservare meglio l’enorme testa con le zanne ricurve che fuoruscivano giallastre dalla bocca semiaperta. Mi abbassai anch’io. La bestia puzzava già di carogna che quasi copriva il suo tanfo di selvatico.
«È il suo odore naturale», disse il vecchio che aveva notato l’espressione schifata della mia bocca.
«Sai che salami e arrosti di lombata e umidi con polenta che ne tireranno fuori, eh?».
«Di sicuro», risposi stortandogli un’occhiata in faccia dato che mi si era accostato per studiarmi con attenzione. Chissà perché.
«Che cosa aspettano quelli del comune?».
«A fare cosa?».
«A dichiarare aperta a tutti la caccia al cinghiale. In un mese li fanno secchi in massa. Ancora un po’ e ce li troviamo in casa, ce li troviamo, eh?».
«Qualcosa faranno di sicuro», risposi laconico. Ero andato via con la testa.
«Non gliene frega niente a un cittadino come lei, eh?».
Non è che in quel momento m’importasse gran che l’abbattimento di cinghiali. È che proprio in quel preciso momento io pensavo al povero cockerino coraggioso disteso nel giardino della villa all’ombra dell’albero del pepe. Di lui, invece, non gliene fregava niente a nessuno in quel preciso momento pieno di salsicce, salami e prosciutti in arrivo dalla carcassa di un bel cinghiale.

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, segnaliamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016) e Un coltello di ceramica verde (2018).