«Accorgersi di non aver tratto il massimo dalla vita è di una tristezza infinita». Da questa dichiarazione, estrapolata da una recente intervista di Steven Wilson, leader dei Porcupine Tree nonché maggior esponente di quella rinascita rock iniziata dalla tradizione progressive (quando cioè lo si concepiva come opera d’arte e non come mercimonio per raggiungere popolarità, successo e un bel conto in banca), parte la considerazione che proprio grazie a lui e a pochissimi altri (Thom Yorke?) il rock non potrà che progredire, senza vendersi a quella logica commerciale basata esclusivamente sulle vendite, sui download, sulle visualizzazioni.

Da sempre avverso al “mercato“, in virtù di un’integrità artistica che gli fa non solo onore ma che lo pone ai vertici assoluti del rock contemporaneo, Wilson è colui sulle cui spalle poggia il peso di potere, ma soprattutto dovere rivitalizzare un linguaggio che da almeno 30 anni non propone novità e tantomeno rivoluzioni. Ed è figlio, appunto, di quella tradizione “prog” che prima ancora di essere un genere musicale è una filosofia di vita, un credo. Rituffandosi in atmosfere e sonorità coinvolgenti grazie al contributo di Gavin Harrison, il miglior batterista apparso sulla scena dai tempi del Bill Bruford, anch’egli (guarda caso) membro dei King Crimson e musicista a 360°; e alle tastiere immaginifiche di Richard Barbieri, Wilson torna al progetto Porcupine Tree dopo 12 anni e il risultato è Closure/Continuation, album che lancia un ponte sia verso il passato glorioso della band, sia verso un futuro dagli sviluppi esaltanti.

Porcupine Tree: Richard Barbieri, Steven Wilson, Gavin Harrison

L’ultima volta che li abbiamo visti all’opera su un palco, è stata il 14 ottobre 2010 alla Royal Albert Hall di Londra nella formazione che includeva Colin Edwin al basso. Era l’ultima data del trionfale tour che celebrava The Incident, uscito a settembre del 2009. Dopo quei concerti, all’apice del successo, i Porcupine Tree si fermano. Mentre Richard Barbieri rivive l’esperienza che anni prima aveva vissuto con la dissoluzione dei Japan per volere di David Sylvian, Gavin Harrison è componente chiave dei King Crimson, collabora con i Pineapple Thief e si fa trovare in forma smagliante in ogni progetto che lo vede coinvolto. Steven Wilson, dal canto suo, ha una carriera solista in rampa di lancio che lo consacra come unica, autentica voce nuova in ambito rock; e a ciò aggiunge il lavoro di “remixer” per alcune decine di dischi del progressive anni 70 e 80: le famose Steven Wilson Edition di album storici fra cui quelli di Emerson, Lake & Palmer, Jethro Tull, Yes e altri mostri sacri del genere.

Se la sua voce rimanda a quella di John Wetton, la più “prog” insieme a quella di Greg Lake, la musica su cui si innestano i poliritmi di Harrison e le tessiture orchestrali di Barbieri ricorda le sonorità che hanno fatto la storia definendo il genere. Non era facile ritrovarsi dopo 12 anni e riprendere un discorso interrotto brutalmente. Ma i 3 si sono confrontati, hanno messo da parte i rispettivi ego e hanno concorso alla creazione dell’album rock più bello, intenso ed emozionante degli ultimi anni.

Si parte con il basso slap di Harridan, ben concepito da Wilson, su cui la batteria di Harrison sfoggia una potenza espressiva che non ascoltavamo dai tempi di Carl Palmer e dove le tastiere di Barbieri fanno da collante alle chitarre acide, nevrotiche, lisergiche di Steven. È un brano potentissimo, dal ritmo dispari, incalzante, con la voce che si fa strumento a completare la struttura armonica. Barbieri, poi, dalle sue tastiere trae suoni dal fascino antico, ma capaci di gettare uno sguardo verso le possibilità future di tastiere digitali e sintetizzatori analogici, peraltro mai morti. Sonorità calde e avvolgenti, che nessun computer potrà mai emulare.

Si prosegue con il pezzo forse più toccante, Of The New Day. Brano che ha l’epos di Epitaph dei King Crimson, di Take A Pebble di ELP e di The Great Gig In The Sky dei Pink Floyd, ma che ha anche l’indiscutibile merito di non essere una copia di quelle atmosfere, di quell’epoca, di quei tempi. Il canto wilsoniano ha un che di magico, che cattura l’attenzione facendoti sentire perfettamente a tuo agio benchè parli di problematiche esistenziali comuni a tutti noi, esseri mortali. Le nostre paure, i nostri incubi, i nostri sogni, i nostri ideali diventano terreno comune; e quei piatti, quei tamburi che scandiscono il tempo alla perfezione, sono il battito del nostro cuore.

Live alla Royal Albert Hall, 14/10/2010

Rats Return è invece un prog-metal, aggressivo e introspettivo al tempo stesso, che sfocia in Dignity: ballad di quelle intime, dalle atmosfere sognanti, che può ricordare un album mai dimenticato come Stupid Dream, fra i vertici assoluti dei Porcupine Tree. Glaciali, asettici, elettro-ambient, Herd Culling e Walk The Plank sviluppano suoni e tematiche che Richard Barbieri progettò ai tempi della collaborazione con Steve Hogarth dei Marillion. Emerge, dunque, il lavoro collettivo: da un’idea del singolo, il tutto viene sviluppato in gruppo, condiviso e fatto proprio per raggiungere un livello qualitativo quanto mai difficile da riscontrare nella musica odierna. La conclusiva Chimera’s Wreck, che sfiora i 10 minuti ed è introdotta da un magnifico arpeggio che ricorda quello di Hey You di floydiana memoria, si fa a mano a mano più acida e corrosiva grazie all’intervento di un sempre ispiratissimo Gavin Harrison: da notare il lavoro con le spazzole e i piatti, che rivela appieno il suo straordinario talento.

A qualcuno potrà apparire démodé, ma i Porcupine Tree non appartengono a questa generazione: vivono nel recupero dei grandi valori del rock e sviluppano una musica che non conosce limiti di epoca, di tempo, di spazio. Se ne fregano del mercato, di strizzare l’occhio alle classifiche e Dio li benedica per questo, se il risultato sono canzoni di questo livello. “Even when the rain comes, we can still find a future in tomorrow“, canta Steven Wilson. La pioggia come metafora dei tempi bui, monito per l’oggi e per il domani. Closure/Continuation era un ritorno, più che mai atteso, che non ha tradito le aspettative. Un raro esempio di arte musicale concepito da 3 strumentisti che uniscono al piacere di ritrovarsi a fare musica insieme, l’entusiasmo per l’invenzione estemporanea.

«Dal primo momento in studio con Gavin, ho capito che eravamo in stato di grazia, che stava nascendo, o ri-nascendo una magia che mi era mancata», ha dichiarato Wilson. «Quando poi Richard ha aggiunto le sue tastiere e i suoi magnifici suoni… è stato come tornare a casa dopo un lungo viaggio, sciacquarsi il viso, sedersi in poltrona e godere il calore del proprio habitat».

Appuntamento al 24 ottobre 2022 al Mediolanum Forum di Milano, unica data italiana del loro tour. E allora sì, che su quel palco i Porcupine Tree ci daranno una lezione su come fare grande Rock nel 21° secolo!