Nel 1981, con Jumpin’ Jive, Joe Jackson anticipò il revival dello swing. Ripeterà l’impresa con il music hall? Quel genere cioè, che a metà dell’800 del secolo scorso – dunque in piena età vittoriana – nacque fra le strade e i pub dell’East End londinese imponendosi storicamente come “prima forma d’intrattenimento di massa creata dalle classi lavoratrici ”; salvo poi approdare all’inizio del 900, in epoca edoardiana, nei teatri del West End, coinvolgendo nel divertimento sfrenato e spensierato dei suoi spettacoli aristocratici e prostitute, borghesi e proletari. Abbattendo, di fatto – sia pure per la durata limitata di uno show – qualunque barriera di classe.

Tutti i musicisti britannici nati a ridosso del secondo dopoguerra lo portano nel cuore e nella memoria; e spesso vi hanno attinto per le loro canzoni. I Beatles e Paul McCartney così come i Kinks di Ray Davies, gli Herman’s Hermits esponenti di spicco della British Invasion e quell’accozzaglia di eccentrici genialoidi che si faceva chiamare Bonzo Dog Doo-Dah Band, fino ai Madness dell’album Theatre Of The Absurd Presents C’est la Vie uscito giusto qualche giorno fa. Insomma: il music hall fa parte del dna britannico come il cricket e il delle 5. Anche per un cosmopolita come Jackson, che tra New York e Berlino si è spesso mosso su altre coordinate geoculturali, ma che non ha dimenticato le sue origini (inglesi e proletarie, appunto).

Joe Jackson

Tanto da architettare – fino a prova contraria – una fantastica burla, e una geniale campagna di marketing, da cui non è difficile farsi abbindolare: il recente e misterioso ritrovamento, fra un guardaroba nel retrobottega di un negozio di anticaglie a Bethnal Green, un attico di una vecchia pensione a Margate, una polverosa biblioteca maltese a La Valletta e una sperduta fattoria nelle campagne belghe, di alcune vecchie partiture musicali scritte di suo pugno dal sedicente compositore ed entertainer Max Champion (guardatevi lo spassoso e geniale documentario di presentazione del progetto in cui interviene con i suoi incredibili baffi a manubrio anche l’attore Tom Carradine, appassionato divulgatore del genere). Se non che di Max, presunto nipote del ben noto Harry Champion, nato nel quartiere londinese di Whitechapel e probabilmente morto in battaglia in Belgio durante il primo conflitto mondiale nei libri di storia, nei dizionari musicali e nelle pagine del Web non si trova traccia, a dispetto dei cimeli accumulati dal solerte Joe: locandine di spettacoli d’epoca, spartiti, foto in bianco e nero (che sembrano evocare un volto familiare), persino un gracchiante 78 giri in cui si sente la sua voce.

Sono tanti, al contrario, gli indizi che lo indicano come alter ego fittizio di Joe, sparsi tra le pieghe delle canzoni. Licenziosa e ribalda nel raccontare di una relazione scandalosa e proibita tra un vescovo e un’attrice, The Bishop And The Actress rievoca una frase inclusa nel testo di un vecchio classico dell’inglese: Sunday Papers; mentre nel descrivere un tipo che rifugge come la peste ogni pratica sportiva, The Sporting Life rimanda alle pagine della sua autobiografia Gravità zero. L’irresistibile marcetta di Health And Safety, intanto, suona come un sarcastico commento sulle paure del vivere quotidiano amplificate dall’emergenza Covid e sui pericoli insiti nell’affidarsi a uno “Stato mamma ” (temi già affrontati in passato da Jackson in canzoni come Target o Cancer, o nei suoi pamphlet contro i divieti anti fumo nei locali pubblici).

Il trucco c’è (e un po’ si vede), ma quel che è certo è che JJ si cala con classe e gusto, eleganza e gran divertimento nello spirito di quell’antica musica e di quelle canzonispesso umoristiche e satiriche, a volte patriottiche o sentimentali ” (come Dear Old Mum (sottotitolo: “un lamento londinese-irlandese ”), altre volte più tenebrose o zeppe di doppi sensi a sfondo sessuale.

È musica da circo, da cinema muto, da spettacolo di varietà in cui ai musici si alternano maghi, clown, acrobati e ventriloqui. Irriverente e allegra, romantica o fracassona, con il quartetto d’archi, il flauto, il clarinetto, la tromba e il trombone di volta in volta avvolgenti, guizzanti e stridenti; i fragori della batteria, dei piatti, delle pentole, delle padelle e del gong maltese; il frenetico pestare sui tasti di un pianoforte di un’orchestra di 11 elementi che asseconda perfettamente il bandleader, calato nella parte di Max Champion con una voce (baritonale) capace di alternare accenti cockney ad affettazioni aristocratiche. L’esotismo e lo humour di Monty Mundy; l’atmosfera notturna, nostalgica e incantata di Shades Of Night; il ritmo di What A Racket!, caotico come quello di una Londra puzzolente, trafficata e piena di smog; il soliloquio melodrammatico dell’attore protagonista di Think Of The Show, un inno a tempo di valzer ai nottambuli e agli sfaticati che detestano la scuola e il lavoro (Never So Nice In The Morning) sono deliziosamente démodé nelle musiche ma autobiografici e decisamente contemporanei nei temi.

Foto pubblicitaria del 1911 di Max Champion, recuperata nel 2017 nella soffitta di una pensione a Margate

Stufo di stress, pressioni e domande urgenti sul senso della vita, Joe/Max apre e chiude il suo rutilante spettacolo con un invito a vivere il momento godendosi qualche battuta scherzosa e qualche bevuta con gli amici (l’overture di Why Why Why) e, per quanto possibile, a esercitare il proprio libero arbitrio (“risparmiamo le nostre lacrime/siate coraggiosi, miei cari/e alzatevi in piedi ritti e liberi ”, incita nel canto marinaresco scandito da un tamburo marziale della conclusiva Worst Things Happen At Sea, ispirandosi alla sua infanzia e alla sua adolescenza vissute sulla costa meridionale inglese, a Portsmouth).

La sua ricetta di fronte alle preoccupazioni e agli orrori della vita consiste nel ridere e cantare come facevano i nostri avi in un mondo ancora più precario di quello contemporaneo; nel recuperare una vivacità di spirito e un senso del divertimento che sembrano scomparsi dalle società moderne. Grazie del suggerimento, Joe. Anche perché non è necessario essere fanatici di un genere squisitamente anglosassone come il musical, per apprezzarlo. Se si entra nel mood giusto e si sta al gioco, What A Racket! diventa 1 dei dischi più divertenti e gradevoli dell’anno (oltre che 1 dei più sorprendenti).