Ricordi personali, testimonianze, aneddoti, emoticons. Sui social, e persino sulla carta stampata, la scomparsa di Shane MacGowan, giovedì 30 novembre a 65 anni, ha scatenato un’onda anomala di emozione (al cordoglio e alle manifestazioni di affetto dei fan e degli ammiratori si sono uniti anche tanti colleghi).

Sorprende ma fino a un certo punto: il cantante e paroliere dei Pogues (anglicizzazione di un termine gaelico che significa “baciami il culo ”) e in seguito dei meno ricordati Popes, non era un tipo che passava inosservato. Non potevi non notare il suo aspetto – le orecchie a sventola, i denti cariati (a cui solo in tarda età aveva dato una sistemata), lo sguardo un po’ perso e indifeso, l’atteggiamento sbruffone e di sfida. Non potevi restare indifferente alla sua voce, un impasto di ghiaia, catrame, torba e nicotina che sapeva esprimere disgusto, rabbia, scherno, dolore, malinconia ma anche una tumultuosa voglia di vivere e di fare casino. Non potevi sfuggire alla seduzione di quelle sue canzoni in cui si mescolavano biografia ed esperienze collettive, passato e presente; la Storia con la maiuscola e le piccole storie della gente comune (degli ultimi e dei diseredati, soprattutto); i canti sguaiati da osteria e quelle ballate da marciapiede dal romanticismo ostinato, struggente, sanguinante.

Shane MacGowan
(1957-2023)

Perché Shane era davvero un poeta, oltre che una contraddizione vivente. Fieramente irlandese (da parte di entrambi i genitori) ma nato in Inghilterra, un’infanzia campestre vissuta nella contea di Tipperary e una gioventù trascorsa a Londra tra mille difficoltà e turbolenze (le risse di strada, l’alcol, le droghe, l’espulsione da scuola), la ribellione all’ordine costituito e l’attaccamento alla famiglia, la rabbia iconoclasta del punk rocker e un amore profondo per la tradizione folk irlandese (punk e folk erano gli ingredienti della sua musica: si assomigliano, diceva, perché entrambi espressione sincera e genuina del sentire popolare).

Da tanti musicisti coevi, scapestrati, problematici e incazzati come lui, lo distingueva la grande cultura, la passione profonda per le vicende passate e contemporanee del suo Paese d’origine (la Grande Carestia di metà ‘800, l’emigrazione di massa, le lotte dell’esercito repubblicano d’indipendenza, l’I.R.A., per cui non ha mai nascosto le sue simpatie: tutti temi rintracciabili nelle sue canzoni), l’amore smisurato per la letteratura: non tanto per W.B. YeatsUn fighetto che si vergognava delle sue origini», parole sue) quanto per Brendan Behan: anarcoide, anticonformista e ubriacone come lui, per James Joyce, per Jean Genet e per Federico García Lorca.

The Pogues

Con i Pogues seppe – quando necessario – resuscitare a suon di schiaffoni la musica tradizionale (attirandosi le ire dei puristi e dell’ortodossìa musicale) cantando vecchi canti marinari, il desolato grigiore industriale della Dirty Old Town dipinta dal grande folk singer tradizionale Ewan MacColl, l’orrore della guerra descritto dal cantautore scoto-australiano Eric Bogle in And The Band Played Waltzing Matilda (una delle sue interpretazioni più accorate). Cantava di emigrazione (Thousands Are Sailling, scritta dal chitarrista Phil Chevron) e di lotta politica (Street Of Sorrow/Birmingham Six ricordava i momenti più aspri dei Troubles e della lotta di liberazione nordirlandese schierandosi dalla parte dei perseguitati politici), mostrando le sue diverse anime. Lo spirito ribaldo, casinista, sovversivo dei pezzi veloci in cui mandolino, banjo, chitarra, fisarmonica, percussioni e tin whistle si inseguivano vorticosamente: Streams Of Whiskey (un titolo che è tutto un programma), la frenesia di Bottle Of Smoke, If I Should Fall From Grace With God e The Sick Bed Of Cúchulainn (ispirata a un eroe della mitologia irlandese), il coro da taverna di Sally MacLennane, la melodia balcanica di Turkish Song Of The Damned, la sgangherata e ubriaca baldoria da fiera spagnola di Fiesta (con tanto di presa per i fondelli rivolta a Elvis Costello, produttore del secondo album Rum, Sodomy And The Lash).

E poi quello disperatamente romantico delle ballate: The Old Main Drag, Lullaby Of London e Summer In Siam. La meravigliosa dichiarazione d’amore di Rainy Night In Soho (“ora che la canzone è quasi finita/forse non riusciremo mai a scoprire che cosa significa/ma c’è ancora una luce che tengo davanti a me/tu sei la misura dei miei sogni “), quella A Pair Of Brown Eyes in cui il protagonista, sbronzo marcio e quasi moribondo, circondato da derelitti e da dannati, si alza e si mette in viaggio alla ricerca di un paio di occhi castani che gli riscaldino il cuore e diano un senso alla sua vita. C’è l’inferno e paradiso, in quelle note e in quelle parole, specchio di un essere umano baciato da un talento divino, irascibile e sensibile, inaffidabile e generoso, sconcio e raffinato, vizioso e religioso, ancorato a terra ma con lo sguardo rivolto verso il cielo. Sempre pronto a ricordarci, come cantava Fabrizio De André, che dai diamanti non nasce niente e che dal letame nascono i fiori.

Un angelico figlio di puttana come i protagonisti della sua canzone più famosa, Fairytale Of New York: lui e la compianta Kirsty MacColl nella parte di 2 emarginati, stranieri in terra americana, persi, lontani da casa, che si insultano e si dichiarano il loro amore mentre i ragazzi del coro della polizia newyorkese cantano un pezzo tradizionale irlandese e le campane annunciano il Natale. Da quando è uscita, nel 1988, è diventata a dispetto del linguaggio crudo e niente affatto politically correct un classico delle festività di fine anno: il più autentico, il più commovente, il più lontano dalla retorica zuccherosa delle Christmas songs. Stavolta, i bookmaker inglesi sono pronti a scommettere che ce la farà ad agguantare il 1° posto in classifica. Se accadrà, Shane guarderà giù con un ghigno beffardo e affettuoso, alzando l’ennesimo calice alla sua, alla nostra salute.